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Il sito del nuovo organo ufficiale d'informazione d'ateneo è accessibile all'indirizzo www.unictmagazine.unict.it
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Intervento del prof. Guido Nicolosi, docente di Sociologia dei media e presidente del corso di laurea in Sociologia delle reti, dell'informazione e dell'innovazione del Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Catania
Il 3 maggio è la Giornata mondiale per la libertà di stampa. Si tratta di una ricorrenza di grandissimo rilievo istituita nel calendario civile dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) nel 1993, ma che deriva il suo fondamento dalla libertà di opinione e di espressione sancita nell’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata a Parigi dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948.
L’importanza di questa celebrazione risiede nell’altissimo valore simbolico che detiene la libertà di parola nei sistemi politici e giuridici di tutto il globo. Per questa ragione, colpisce la relativa indifferenza con cui essa viene vissuta nelle società occidentali contemporanee, soprattutto negli strati più giovani della popolazione.
Ad alcuni può sembrare anacronistico e superfluo celebrare la libertà di stampa in un’epoca caratterizzata dalla pervasività della comunicazione digitale e multimediale. L’onnipresenza delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) sembra garantire l’accesso diffuso agli strumenti più avanzati della produzione e condivisione dell’informazione. Assistiamo quotidianamente, grazie ai social media, anche ad una certa banalizzazione della comunicazione mediatica. Alcuni avvertono addirittura la necessità di arginare il sovraccarico informativo per limitare le conseguenze nefaste delle notizie false.
Tuttavia, la giornata del 3 maggio ci dà l’opportunità di riflettere collettivamente sull’attualità dei principi che sottostanno alla libertà di stampa e sulle innumerevoli sfide a cui va incontro oggi una società, come la nostra, caratterizzata da una comunicazione globale e tecnologicamente avanzata.
La libertà di stampa, sancita in Italia dall’articolo 21 della nostra Costituzione, ha una storia antica e complessa. Tuttavia, la sua concezione moderna è il portato più significativo e radicale delle grandi rivoluzioni che hanno caratterizzato la storia delle società occidentali nel diciottesimo secolo. Essa ha giocato un ruolo decisivo nella definizione della cosiddetta “sfera pubblica”: l’arena “virtuale” di libero dibattito critico e razionale che si colloca tra la cosiddetta società civile e l’autorità statuale e che caratterizza la nascita delle società liberali occidentali.
In questa arena sono stati forgiati quei principi che compongono il “DNA culturale” della nostra civiltà: libertà, eguaglianza, solidarietà e laicità. Inoltre, la stampa ancora oggi rappresenta il nostro “quarto potere”: ovvero, un meccanismo di controllo e contro-bilanciamento dei poteri statuali tradizionali (giudiziario, legislativo ed esecutivo) con una funzione di garanzia per i cittadini, contro gli abusi e le ingiustizie sociali. Per tutte queste ragioni, nell’immaginario collettivo, la stampa ha finito per rappresentare una vera e propria “sineddoche” della democrazia.
Tuttavia, la libertà di espressione, in molti parti del mondo continua ad essere una risorsa scarsa e preziosa. Secondo l’Organizzazione non governativa Reporters sans frontièrs (RSF), più di un terzo della popolazione mondiale vive in nazioni dove non esiste libertà di stampa. In questi Paesi, i giornalisti operano ai limiti di ciò che viene ritenuto accettabile e si trovano spesso soggetti a considerevoli intimidazioni da parte di rappresentanti dello Stato: minacce alla loro carriera professionale (licenziamento, lista di proscrizione), minacce di morte, rapimento, tortura e assassinio.
Sempre secondo RSF, nel 2020 sono stati uccisi 50 giornalisti nel mondo, la maggior parte dei quali lavorava in Paesi non in conflitto. In dieci anni, dal 2011 a oggi, sono state censite 937 vittime, anche se fortunatamente questo triste bilancio migliora costantemente dal 2012. Ad oggi, inoltre, nel mondo ci sono ancora 387 giornalisti detenuti. Altro dato allarmante, nel 2020 è cresciuto il numero delle giornaliste donne arrestate: + 35%. Fatto particolarmente grave, se abbinato ai numeri impietosi che disegnano, in tutto il mondo, il profilo di un settore fortemente segnato dalla disparità di genere.
La carta stampata oggi occupa una posizione marginale nell’“infosfera” globale e vive da diversi anni una profonda crisi economica (di vendite e di raccolta pubblicitaria) e di lettorato. Tuttavia, grazie alla sua autorevolezza, essa detiene ancora un rilevante potere di agenda nei confronti di tutti i media tradizionali che, nonostante la rapida e impetuosa ascesa di internet e dei canali digitali, continuano ad essere la fonte informativa principale per una netta maggioranza della popolazione. Soprattutto, essi continuano ad essere fondamentali nella costruzione dell’opinione pubblica della parte più influente della società (per età, livello di istruzione e ruolo professionale).
Altro aspetto non secondario, la classica divisione tra media tradizionali (stampa, radio, televisione) e nuovi media perde sempre più di rilievo. Viviamo un'epoca fortemente caratterizzata da cross-medialità, dove il vecchio e il nuovo si ibridano reciprocamente: la televisione digitale, i giornali on-line, il digitale terrestre, la radio DAB, ecc. Il digitale, infatti, è un “metamedium”, una piattaforma. Mai come oggi è stata così attuale la “profezia” di Marshall McLuhan, secondo cui l’affermazione di un nuovo medium non determina la scomparsa dei media che lo hanno preceduto, ma la loro radicale riconfigurazione.
Sappiamo che la forza informativa di internet è in grande ascesa: più di un quarto degli italiani (questo dato cresce significativamente tra gli under 30) utilizza quotidianamente la rete per le news. Tuttavia per circa il 40% di questi fruitori digitali, il riferimento prevalente continua ad essere una fonte editoriale: siti di giornali, riviste, televisioni o anche testate native digitali. Per più della metà, invece, la fonte principale è di tipo “algoritmico”: social network, aggregatori, motori di ricerca. Va comunque ricordato che le news rappresentano uno dei contenuti più condivisi in social network come Facebook.
Sappiamo però anche che la fruizione “distratta” e “multitasking” sui social media (spesso tramite smartphone) spinge produttori e fornitori che operano sul digitale ad usare una strategia di comunicazione sintetica, emozionale, enfatica, decontestualizzata. Ingredienti pericolosi, che mettono a repentaglio la qualità dell’informazione, con dannosi effetti di emulazione su media tradizionali e carta stampata. Infine, la fruizione online delle notizie apre la questione della verifica dell’affidabilità delle fonti in un sistema sempre più caratterizzato da disintermediazione e sovraccarico informativo.
La principale sfida che dunque abbiamo davanti riguarda la necessità di garantire autorevolezza e attendibilità al processo informativo. Si tratta di un’esigenza avvertita diffusamente. Lo dimostra il fatto che il 56% degli under 30, i più grandi fruitori di news online (il 63% si informa sui social e il 75% sulle testate di informazioni online), dichiara di dubitare spesso della credibilità delle notizie sui social network (fonte: Demopolis).
Tuttavia, sono proprio i giovanissimi ad indicare la strada per fornire una risposta positiva a questa criticità: gli under 30 dichiarano di considerare importante (40%) o fondamentale (33%) la funzione del giornalismo e di essere abbastanza (37%) o molto (33%) interessati al giornalismo d’inchiesta. Dunque, lungi dall’essere al tramonto, la stampa ha un futuro importante davanti a sé se saprà cogliere le opportunità create dalla sfida digitale: inchieste, fact-checking, informazione certificata, open data, comunicazione pubblica trasparente, instant articles.
Il tema è emerso con forza nel corso del 2020, a causa della pandemia. Non è casuale che il principale focus tematico delle celebrazioni del 3 maggio quest’anno sia la disinformazione nell’epoca del coronavirus. Proprio il caso italiano risulta essere emblematico.
Come paventato dall’autorevole rivista Lancet, il nostro Paese ha dovuto fronteggiare una vera e propria crisi infodemica. Nonostante i richiami dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e in assenza di una regia istituzionale efficace e professionale, i media hanno fornito una copertura massiccia ed enfatica, in molti casi schizofrenica, che ha alternato toni rassicuranti e allarmistici e prodotto interpretazioni spesso contraddittorie. Secondo diversi studi, il peso delle fakenews è rimasto fortunatamente contenuto. Tuttavia, il registro prevalente della comunicazione non è stato rassicurante.
Lo stesso Istituto Superiore di Sanità ha ammesso che la comunicazione può aver esacerbato ansia e paura nella popolazione, diventando uno dei fattori di rischio in grado di spiegare, ad esempio, il considerevole aumento del tasso di suicidi registrato durante la pandemia. Inoltre, va ricordato che le interpretazioni scientifiche contraddittorie sono uno dei fattori che spingono maggiormente la gente comune ad avvicinarsi ai “miti” e ad abbandonare i “fatti”, favorendo ondate collettive di false credenze e interpretazioni “magiche”.
In conclusione, le celebrazioni del 3 maggio ci permettono di riflettere sulla rilevanza di un bene prezioso, la cui importanza abbiamo riscoperto nel corso di questa terribile crisi sanitaria e sociale. Così come i pesci non si accorgono dell’acqua in cui nuotano, anche gli esseri umani hanno la tendenza a “dimenticare” o “rimuovere” gli elementi che rendono possibile la loro stessa esistenza.
Il calendario civile ha la funzione fondamentale di prevenire l’oblio dei nostri valori fondamentali. Così come il richiamo di un vaccino serve a riattivare la memoria del sistema immunitario del nostro corpo contro i virus letali che minacciano l’esistenza biologica, la memoria culturale ci permette di rafforzare gli anticorpi sociali con cui fronteggiare un ulteriore rischio sempre in agguato: la negazione delle libertà.