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Intervista allo scrittore di noir e conduttore televisivo, 'competente in paura', fra mistero e misteri, alla ricerca del lato oscuro di ognuno di noi
«Ognuno di noi ha una metà oscura e noi autori di noir raccontiamo proprio quella. Patricia Highsmith, ad esempio, che ha inventato il personaggio di Tom Ripley, il talentuoso mr. Ripley di Antony Minghella, ha scritto di persone che sono normalissime ma che all’improvviso si ritrovano ad aver fatto delle cose che mai avrebbero immaginato. Non credo nei mostri, è una categoria che ormai appartiene alla cronaca di tanti anni fa e non ci piace più: la storia ci insegna invece che puoi ritrovare, in persone che non ti aspetteresti, la cosiddetta banalità del male».
Parola di Carlo Lucarelli, scrittore giallista tra i più affermati in Italia, conduttore televisivo di trasmissioni come la celeberrima Blu Notte, ma soprattutto – come si definisce – “competente di paura”. “Quello che si definiva mostro – aggiunge – non è mai un orco che spunta dai boschi e di cui non si conosce l’origine: senza voler giustificare niente, alla fine si tratta sempre di un tizio che ha una metà oscura che è venuta fuori per una serie di problemi e di motivi, ma non è certo meno umana della sua metà chiara”.
Carlo Lucarelli (credits Francesca Cassaro)
Incontriamo Lucarelli al Monastero dei Benedettini di Catania, dove è venuto a presentare – su invito del dipartimento di Scienze umanistiche - il suo ultimo libro “Léon”, nel quale – a venticinque anni dal best-seller “Almost Blue” – riporta ancora una volta in azione personaggi come l’ispettore Grazia Negro ("la mia detective") e il ragazzo non vedente Simone Martini, costretti nuovamente a fronteggiare l’Iguana, feroce serial-killer evaso dall’ospedale psichiatrico.
«Ho rivisto e anche studiato decine di volte la divertente parodia di Fabio De Luigi nelle trasmissioni della Gialappa’s. E se mi avessero dato un euro ogni volta che mi hanno invitato a fare dei selfie imitando De Luigi che imitava me, io e lui saremmo diventati milionari – esordisce neutralizzando qualunque possibile ironia -. La caricatura di Fabio mi ha invece aiutato a definire anche il mio stile di scrittura: la paura e il mistero si rivelano dei meccanismi efficaci con i quali catturiamo l’attenzione di chi ci ascolta, portandolo pian piano a scoprire tutti gli aspetti della storia che vogliamo raccontare. Vale per i romanzi, ma anche per la tv, il cinema e la radio».
Per questo lei è convinto che la paura sia un potente strumento di conoscenza?
«La paura è un’emozione che non ti lascia indifferenti. Non puoi dimenticartela e andare via. Puoi reagire in due modi: chiuderti e rifuggirla, oppure affrontarla e spingerti alla ricerca dei motivi che la generano; andando cioè a vedere cosa c’è dietro la famosa porta socchiusa dalla quale intravedi un chiarore che ti crea inquietudine. Apri la porta e vedi cosa c’è dietro: questo significa conoscere, come ho fatto io da bambino, spalancando finalmente l'uscio del ‘salotto buono’ nella casa dei miei nonni che non avevo mai osato aprire».
In alcuni programmi trasmessi da SkyArte – “Le muse inquietanti” – o su Radio DeeJay – Dee Giallo - lei ha portato a galla i lati oscuri di musicisti, artisti, personaggi famosi o anche di personaggi secondari – “Inseparabili. Vite all’ombra del genio” - che hanno vissuto a fianco di vere e proprie icone del nostro tempo. Così come in Blu Notte ha raccontato i misteri che stanno dietro alcune vicende della storia del nostro Paese, o dietro efferati fatti di cronaca nera. Dopo tanti anni, il mistero l’attrae ancora?
«Mi creda, non è che io sia ossessivamente attratto dai misteri, nonostante il mestiere che faccio. Io vorrei che i casi di cui mi occupo alla fine venissero risolti, come avviene immancabilmente nelle ultime pagine di un libro giallo, soprattutto quando ci riguardano da vicino o fanno parte della nostra storia. Come dicevo, è lo stile ‘misterioso’ di narrare le storie che è affascinante e per me rappresenta un ottimo modo per entrare dentro quella vicenda che stiamo raccontando: ci permette di mettere in luce nuovi aspetti e scoprire tante altre cose. Il fine ultimo non è il mistero, ma è l’accompagnare chi ci ascolta a bordo di quell'auto bellissima e velocissima che è proprio il mistero».
È questo il pretesto per andare a ripescare quel 'cuore nero' delle favole in programmi come “In compagnia del lupo”, sempre nei canali Sky?
«Ho due gemelline piccole e per farle addormentare la sera spesso mi invento delle favolette che parlano di teneri gattini e cagnolini. Però il mio tono di voce alla fine le spaventa lo stesso, ormai purtroppo non riesco ad essere più rassicurante, neanche se mi sforzo … Scherzi a parte, molte delle vecchie favole che abbiamo ascoltato per generazioni avevano un lato inquietante, erano dei noir a tutti gli effetti. Sicuramente perché erano opere letterarie in senso stretto e provavano a raccontare il mondo e le contraddizioni del tempo in cui erano state concepite, talvolta erano proprio lo specchio di quella società. E probabilmente ai nostri figli non le avremmo mai fatte guardare al cinema così come sono state spesso trasposte. Oggi il lupo di Cappuccetto Rosso è politicamente corretto e diventa vegetariano: non mangia la nonna e non viene certamente squartato. Ma il meccanismo di molte storie di allora è lo stesso che sta alla base dei gialli, quindi – perché no? – possiamo leggerle anche in maniera più complessa rispetto alla concezione che siano per forza ‘finte’ o esclusivamente destinate ai bambini, in quanto favole».
Forse molti non lo sanno, ma lei è anche il papà di un investigatore anomalo e – diciamolo pure - sfigato, eppure molto amato e seguito in televisione, per ben otto serie a partire dal 2006. Non è un personaggio vincente, non è impeccabile, anzi ha molti difetti insopportabili. Eppure è diventato un vero e proprio ‘cult’: l’ispettore Coliandro, la pecora nera di una scuderia che può annoverare ‘campioni’ irreprensibili come il commissario De Luca di “Carta bianca” o l’ispettrice Negro di “Almost Blue” o “Léon”…
«Montalbano ha i suoi irriducibili fan, così come Schiavone e persino don Matteo e io sono certamente uno di loro. Coliandro invece, come ci ripetiamo sempre ridendo, non ha dei fan: ha degli ultrà, degli hooligan… Non è il personaggio che amo di più fra quelli che ho creato: ad esempio il commissario De Luca mi stimola letterariamente di più perché ha più dimensioni e contraddizioni. Ma non posso negare che io e Giampiero Rigosi ci divertiamo un sacco a scrivere le sceneggiature delle sue serie, e spero di poter continuare a farlo per sempre, anche perché adesso per me sarebbe impossibile scrivere un nuovo libro con un Coliandro che viva di vita propria rispetto a quello incarnato da Giampaolo Morelli. Nei miei libri volevo descrivere le vicende di un poliziotto molto negativo, a volte anche cattivo, uno che non sa fare bene il suo lavoro a differenza di tutti gli altri eroi dei gialli, e che per giunta è maschilista, razzista, ha tutti gli ‘ismi’ del mondo. Per questo lo bastono spesso e volentieri, perché la gente non creda che condivido i suoi pensieri. E questo fatto di essere un perdente onesto, e in fondo limitato, amaro e disperato, l’ha reso un personaggio più umano di quello che avevo inizialmente in mente: in tv ha assunto la fisicità di Morelli e lo sguardo dei Manetti Bros ed è diventato un personaggio tridimensionale che per me adesso è bellissimo, perché nonostante le sue tante debolezze è abbastanza forte da non farsi scalfire da quello che gli succede, muovendosi in una Bologna che sembra una piccola Los Angeles e affrontando tutte le sue possibili derive e degradi».
Bologna ha le sue derive, come ricorda lei stesso citando la strage alla stazione o le scorribande della Uno Bianca, ma anche il resto del Paese non scherza. Che idea si è fatto del panorama italiano dopo anni di ‘story telling’ sui suoi mille misteri?
«Una volta in una conferenza nella quale avevo presentato un bel po’ di casi di cui mi ero occupato in tv, un ragazzo straniero si alzò dal pubblico e mi chiese… Ma dopo quello che lei ci ha mostrato, come fate voi italiani ad essere ancora tutti vivi? Parliamo di vicende come piazza Fontana, Ustica e roba del genere, persino del naufragio della Costa Concordia. Ma non è un caso che, forse ancor più degli stessi storici, siano ormai gli scrittori d’intrattenimento come noi a voler raccontare un pezzo di storia che esiste e rappresenta la complessa realtà oscura del nostro Paese, che serve anche a spiegare tante cose che accadono nella cosiddetta metà chiara. Del resto, noi non facciamo programmi di investigazione, ma di racconto storico basato spesso su atti processuali che nessuno conosce o nessuno si è mai andato a leggere. Giorgio Scerbanenco, uno scrittore italo-ucraino che tutti noi consideriamo un po’ come il papà della nuova generazione di giallisti, pur nel suo cinismo riconosciuto, sosteneva che ogni tanto possiamo cercare di riuscire a fermare una locomotiva con una mano. E forse anche questo spiega come in fondo noi italiani siamo un popolo che resistiamo, e riusciamo anche a vincere delle battaglie, se non proprio le guerre. Ma questa, come dicevo in Blu Notte, è un’altra storia…».
Ne “La tredicesima ora”, andato in onda nel 2014 su Rai Tre, ha abbandonato i personaggi famosi, e si occupato di uomini e donne comuni che, con un moto di ribellione o riscatto, hanno cambiato radicalmente il corso della loro vita, focalizzando l’istante esatto in cui tutto mutava. Una nota di ottimismo che forse non guasta, dopo due anni di pandemia e di ‘fobie’ varie e spesso malamente condivise. Anche se sembra chiaro che non ne usciremo migliori, da nera la notte tornerà ad essere di nuovo blu?
«Voglio crederci. Il ‘blu’ che compare nel titolo di quella trasmissione lo avevo scelto perché a mio avviso rappresentava meglio il ‘noir’ come genere letterario, ancora più del nero. Perché richiama una sorta di malinconia che poi è l’umanità del ‘blues’ come genere musicale. Secondo me, dopo quello che abbiamo vissuto negli ultimi due anni, questa umanità resta. E la notte riacquista sfumature di blu. Così come sono convinto che esiste una metà chiara fortissima in tutte le persone, che molte volte diventa dominante, e fa in modo che emerga anche la banalità del bene. Io ancora non so quale prevalga in me, se la metà chiara o quella oscura. Non lo so e spero di non scoprirlo, anche perché io di mestiere ammazzo la gente…»
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