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Chip shortage, emergenza globale

Il presidente del cdl magistrale in Ingegneria elettronica, Salvatore Pennisi: “La mancanza di circuiti integrati può essere la ‘tempesta perfetta’ per l’economia mondiale. Investiamo di più sulla formazione di ingegneri e tecnici specializzati”

11 Maggio 2022
Mariano Campo

«I chip sono ormai presenti in tutte le attività umane, da quelle lavorative a quelle ludiche, dalle comunicazioni alla mobilità. L’elettronica è ovunque, insomma. E se vengono a mancare i circuiti integrati, è inevitabile prepararsi a una grave crisi economica e geopolitica a livello mondiale».

In parole povere, spiega il prof. Salvatore Pennisi, presidente del corso di laurea magistrale in “Electronic Engineering” dell’Università di Catania, il "Chip Shortage” è un fenomeno ancora sommerso ma che può divenire una ‘tempesta perfetta’, che rischia di creare ingenti danni all’economia e di condizionare l’autosufficienza di intere regioni, prima fra tutte l’Europa. Lo ha sottolineato ancora una volta nei giorni scorsi nel corso di un seminario che si è tenuto nell’aula magna del Polo tecnologico d’Ateneo, organizzato dall'Associazione Italiana di Elettrotecnica, Elettronica, Automazione, Informatica e Telecomunicazioni in collaborazione con il dipartimento di Ingegneria elettrica, elettronica e informatica dell’Ateneo.

Lei ha parlato espressamente di “emergenza globale”. Non bastava la pandemia e, ora, la guerra tra Russia e Ucraina…

Tutto origina probabilmente dalla stessa pandemia, e la prima a farne le spese è stata l’industria automobilistica. Nel periodo del lockdown e delle restrizioni più severe, c’è stato un inevitabile calo nelle vendite di automobili e le industrie automobilistiche hanno revocato gli ordinativi di circuiti. Le compagnie che producono chip hanno allora dirottato le proprie attività su altri settori in cui la domanda si era impennata improvvisamente a livello planetario, in maniera abnorme: tablet, pc, laptop, dispositivi entertainment, server a banda larga per una migliore connettività, tutto ciò che poteva servire a rimanere connessi da casa, per il telelavoro o la didattica a distanza. Il primo che è venuto a mancare è il cosiddetto display driver, un chip del costo di 50 centesimi circa che indica ai display quali pixel accendere, e serve al funzionamento di tutti i tipi di display, per elettrodomestici o automobili. Adesso che la domanda di auto è risalita, in anticipo rispetto alle previsioni originarie, le industrie di componenti elettronici non sono ancora pronte pur con le fabbriche di nuovo a pieno regime, e ciò ha portato addirittura alla vendita di modelli di auto incompleti o a significativi ritardi nella catena produttiva.

Le macchine, insomma, sono rimaste in panne

Non solo le auto. È vero che General Motors, Volkswagen, Ford, Toyota e Nissan hanno dovuto rivedere i loro piani industriali e verosimilmente rimandare l’uscita di nuovi modelli di autoveicoli, FCA ha ritardato la ripartenza degli impianti di Toluca (Messico), dove viene prodotta la Jeep Compass, e degli impianti di Brampton in Ontario. Ma anche Sony ha rallentato la produzione della PlayStation 5e Qualcomm dei suoi dispositivi wireless 4G and 5G. 

E il conflitto attualmente in corso, quale attinenza ha con questa emergenza legata ai semiconduttori?

Esattamente come il gas, erogato dalla Russia, o il grano, prodotto in Ucraina, anche i chip stanno diventando di fatto risorse basilari, il cui controllo è strategico anche nelle dinamiche geopolitiche. Di fatto, stiamo assistendo a una spirale inarrestabile di applicazioni basate sull’elettronica: basti pensare che appena quattro anni fa, nel 2018, i dati prodotti dalle macchine sono stati di più rispetto a quelli che produce l’umanità intera, con un incremento esponenziale di dati legati all’IOT (Internet of Things) e all’Industrial IOT. Ciò significa che tutte le attività, e tutti i Paesi, hanno bisogno di chip in maniera sempre più consistente. Per esempio, i componenti per i microprocessori, utilizzati nei comuni cellulari e pc, utilizzano tecnologie raffinatissime, al di sotto dei 10 nanometri (1 nanometro è uguale a 1 milionesimo di millimetro), e vengono prodotti soltanto da due aziende al mondo, entrambe asiatiche: la taiwanese TSMC e la coreana Samsung. Il monopolio è quindi praticamente assoluto. Poi ci sono chip che sono prodotti con tecnologie più ‘mature’, per esempio quelli utilizzati nelle automobili, e su queste l’Europa è in pista. Ma deve stare attenta perché prestissimo anche la Cina diventerà competitiva in queste tecnologie, per ora frenata dall’embargo imposto da Trump.

Sembra un vero e proprio Risiko del silicio…

Di fatto lo è, se guardiamo alla distribuzione geografica della supply chain, ossia alla filiera per la produzione dei microchip. Per esempio, le macchine che producono questi circuiti sono le macchine più evolute del pianeta, perché devono realizzare geometrie ed elementi di dimensioni nanometriche, le dimensioni più piccole che l’uomo riesce a realizzare: 5 nanometri, quando il coronavirus ha un diametro di circa 100 nanometri. Queste macchine sono fatte solo da un’azienda olandese, l’ASML, che ovviamente non riesce ad evadere tutte le richieste. Ma non è il solo ‘anello’ a risentire, nel bene e nel male, delle condizioni di monopolio: quasi il 20% del packaging di tutti i chip del mondo, ossia il posizionamento della piastrina di silicio all’interno dei vari contenitori (lo step finale del processo di produzione), avviene in Malesia. Quando quel Paese si è bloccato per il lockdown, si sono accumulati ritardi enormi nella consegna, che a cascata hanno influenzato tutti gli altri ‘anelli’ collegati. E poi spesso il mercato dei semiconduttori va in difficoltà per fattori politici ed economici, come la crisi del 2008, come si evidenzia dall’elaborazione di Deloitte (si veda il grafico sulle spedizioni globali di unità a circuito integrato dal 1990 al 2021).

Negli ultimi tre decenni, abbiamo assistito a sei shortage di durata o entità simili a quello di oggi. A volte si verificano o sono esacerbate da shock esterni come la bolla tecnologica o la recessione del 2009, ma a volte accadono semplicemente a causa dell’aumento della richiesta di chip dovuta ad applicazioni emergenti. Oppure per catastrofi naturali come lo tsunami giapponese o la pandemia. A Taiwan c’è stata ad esempio la più pesante siccità degli ultimi cinquant’anni, e la carenza di acqua, che viene impiegata nelle fabbriche per la pulizia degli ambienti e dei materiali, ha inciso sulla produttività degli impianti. Non deve inoltre sfuggire che in Ucraina si produce una grande quantità di neon, krypton e xenon, elementi utilizzati nella produzione di chip, e che al tempo stesso la Russia esporta circa il 40% del palladio mondiale.

Lei dice: la produzione di questi componenti è un vero e proprio problema di sovranità e indipendenza, perché dalla tecnologia dipende la libertà di un popolo.

Esatto, per questo è urgente che si costruiscano fabbriche anche dentro l’Europa. Possedere una base produttiva e di progettazione di componenti elettronici diventa non solo necessario per la competitività delle aziende europee, ma anche strategico per la sicurezza e la resilienza dell’Unione. Di recente, ad esempio, negli Usa la Semiconductor Industry Association (di cui fanno parte Intel, IBM, Nvidia, Texas Instruments, AMD, Analog Devices, ecc.) ha scritto al presidente Biden chiedendo espressamente “solidi finanziamenti per la produzione e la ricerca di semiconduttori”. Anche nel nostro Paese ci sono finalmente a disposizione delle risorse pubbliche, stanziate attraverso il recente decreto Energia, finalizzate a incentivi per la realizzazione di impianti per la produzione di microchip, ben 4 miliardi di euro tra il 2022-2030. L’Europa vorrebbe riprendersi una fetta del mercato dei microprocessori, per questo si confida molto nelle strategie di Intel, che installerà due impianti in Germania, a Magdeburgo, o addirittura in una auspicabile delocalizzazione delle attività della stessa TSMC. Una fabbrica avanzata costa però circa 20 miliardi di dollari e, soprattutto, serve il know-how, che in Europa non è facilmente disponibile. In Sicilia, però, possiamo guardare avanti con ottimismo: la STMicroelectronics, uno dei principali produttori mondiali di circuiti integrati per applicazioni automotive, proprio nello stabilimento di Catania costruirà un modulo con nuovo personale puntando sulla tecnologia del carburo di silicio in cui è leader. Quest’investimento di 2 miliardi di euro consentirà di rispondere in breve tempo alla domanda del mercato automobilistico e non solo. 

Al di là di queste dinamiche che riguardano contesti nazionali o sovranazionali, la crisi si avverte però anche nelle tasche dei consumatori?

Per il consumatore ci sono indubbiamente ricadute molto tangibili per via del chip shortage. Per esempio, certi componenti non si trovano in vendita, oppure si possono reperire a un prezzo maggiorato di due-tre volte, come avviene già per alcune schede grafiche utili anche ai fini di calcoli molto complessi e data mining. Le aziende in contingenze come queste acquisiscono un potere molto forte, perché possono stabilire il prezzo e decidere a chi vendere questi pochi chip disponibili, e questo modifica sensibilmente il mercato.

Come si può risolvere quindi questa emergenza?

Abbiamo detto che, a causa della pervasività elettronica, la carenza di chip dovuta alle enormi richieste si risolve certamente realizzando più fabbriche e non solo in Asia. Servono però anche persone in grado di lavorarci, per questo da presidente del Corso di laurea magistrale in Ingegneria Elettronica e da componente del consiglio direttivo della Società italiana di Elettronica, ritengo che occorra incentivare significativamente il reclutamento di nuovi ingegneri elettronici: in Italia ne laureiamo meno di mille l’anno, quando invece le potenzialità occupazionali sono davvero amplissime. Le innovazioni del futuro avranno bisogno di nuova elettronica, si ricercheranno prestazioni sempre migliori, per le applicazioni nel settore biomedico, della salute e del benessere, nel futuro la nanoelettronica coprirà ambiti sempre più estesi e molti ancora da esplorare. C’è bisogno di lavorare per la cosiddetta rivoluzione digitale e non solo su servizi o terziario avanzato: ecco perché sia a livello ministeriale, con l’orientamento scolastico e professionale, che da parte delle stesse industrie, anche a livello di retribuzioni e di comunicazione delle esigenze, bisogna invogliare i giovani a scommettersi in questo settore, che poi di fatto è la tecnologia che abilita tutto ciò che è collegato alla web e green economy e che sta anche alla base di compagnia ‘icone’ di successo e profitto come Google, Amazon, Facebook e Netflix. Ecco perché bisogna porre fine anche allo ‘shortage’ degli ingegneri elettronici: dev’essere chiaro che l’elettronica continua ad offrire moltissimi sbocchi lavorativi, buone possibilità di carriera in Italia e all’estero e una assoluta parità di genere.

Vale anche per il mercato dell’auto?

Uno degli comportamenti ricorrenti delle industrie automobilistiche è che vorrebbero avere i loro magazzini sempre vuoti, quindi contrattano continuamente questi chip con intermediari, e non direttamente con i produttori di componenti. Nel momento in cui i circuiti vengono a mancare è oggettivamente un grande problema, perché i magazzini sono privi di scorte. Inoltre, come hanno fatto già i colossi Apple e Google, dovrebbero avere i propri ingegneri elettronici interni in grado di progettare i chip con le loro specificità. I tempi per uscire da questa crisi non sono comunque rapidi, lo sostengono anche tutti i ‘Ceo’ delle multinazionali più importanti, perché ciascuna delle numerose problematiche che stanno alla base dello ‘shortage’ non si risolve da sola in maniera semplice. La luce in fondo al tunnel dovremmo vederla, secondo i più realisti, tra il 2023 e il 2024. Però, se colossi come IBM o Intel hanno bisogno di spiegare alla Casa Bianca la funzione fondamentale che ricoprono l’elettronica e i semiconduttori, c’è forse davvero da riflettere sul fatto che puntare sui servizi terziari senza dare un parallelo impulso alle tecnologie abilitanti, inclusa la formazione di personale altamente qualificato, non può che portare ad un progresso che non si auto sostiene e a un futuro disseminato di pericoli come il chip shortage

Salvatore Pennisi

Il prof. Salvatore Pennisi