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Dal ludus alla musica sacra, i tanti ‘giochi’ di Paolo Cipolla

Organista e compositore, appassionato cultore di studi classici: “Latino e greco sono lingue sempre vive e attuali”  

2 Marzo 2022
Mariano Campo

«Habet suam quisque tabellam, in qua quadratum pingit in similitudinem maris; id lineis ad libellam et ad perpendiculum ductis in quadrata minora intus dividitur, ita ut ordines quadratorum fiant». Sono le istruzioni del celeberrimo gioco della battaglia, la “Pugna navalis fra triremi e quinqueremi, universis a prima pueritia cognitus et usitatus et qui facientes valde delectet” (ossia conosciuto e utilizzato da tutti fin dalla prima infanzia, e coloro che lo fanno si divertono molto), rielaborate in latino dal magister Paulus Blasius Cæpa, alter ego del professor Paolo Biagio Cipolla, associato di Letteratura greca al dipartimento di Scienze umanistiche.

Per gli amanti del genere, esiste anche la versione in greco antico del ‘tutorial’ della Nαυμαχία, curata sempre dal prof. Cipolla che si è dilettato poi con la traduzione della canzone popolare siciliana “Si maritau Rosa” e, più di recente, con un’elegia sul Covid-19 (“Heracleontis cuiusdam Geloi quae fertur elegia in Coronavirus”, con a fronte il Textus italicus originale composto da Marcello Troisi), che traspone in dorico il mood del recente lockdown nazionale: “Il tempo trascorrerà / e sarà il nostro alleato / il tempo ci aiuterà / a guardare senza velocità / il quotidiano trascorrere del giorno”: composta ovviamente a Catina, nelle Calendae Apriles dell’anno Domini MMXX.

 

Un gioco, un divertissement, si direbbe, che arriva a togliere con un sorriso un po’ di polvere dalle cosiddette lingue morte, trattate spesso - nell’epoca della comunicazione globale e ininterrotta - alla stregua di cimeli per accademici poco à la page o addirittura un ‘mestiere per sopravvissuti’. Eppure, come ha sostenuto l’illustre latinista Ivano Dionigi, già rettore dell’Alma Mater di Bologna, denunciando in una sua affollatissima lectio catinensis di qualche anno fa una vera e propria “emergenza ecologica linguistica”, noi tutti viviamo in un’epoca nella quale abbiamo perso il significato vero delle parole, e raccattiamo ciò che troviamo per la via: «Il latino è importante proprio per questo, perché ci consente di risalire al messaggio insito in ciascuna parola, che può essere stupenda e tremenda. Per questo - sostiene Dionigi -, dovremmo tornare ad essere tutti ‘filologi’, ossia gelosi, curanti, amanti della parola, e quindi estremamente attenti a quanto una lingua come il latino, che è stata parlata per più di venti secoli, ci insegna ancora».

Cipolla è magister anche per un altro motivo. È uno dei pochissimi musicisti autorizzati a suonare l’organo monumentale di Donato Del Piano, ospitato nella chiesa di San Nicolò L’Arena, che ha accompagnato la solenne cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico 2021-22 insieme al collega Franco Lazzaro, e a poter sfiorare i tasti del clavicembalo custodito dal Disum, copia fedele di uno strumento barocco.

Un’attività, quella di esecutore, che facilmente ricollega alla passione per il gioco con le lingue antiche: «Giocare, nella nostra lingua, si riferisce soltanto (o prevalentemente) all’attività ludica. È una stranezza dell’italiano – spiega -, perché se guardiamo i verbi corrispondenti in altre lingue, dal francese jouer all’inglese play al tedesco spielen, vediamo che oltre a ‘giocare’ significano anche ‘suonare uno strumento’ o ‘recitare una parte in teatro’. Anche in greco antico scopriamo che μολπή, molpé, nei poemi omerici indica primariamente il canto, ma in un caso (Odissea VI 101) designa il gioco a palla di Nausicaa e delle sue ancelle. Tracce di quest’ambivalenza sono presenti anche nel latino: ludus significa tanto gioco quanto spettacolo (spettacolo di gladiatori, ma anche teatrale), e da ludus viene praeludium, ‘preludio’, ossia ‘ciò che si suona prima’. Suonare l’organo, e nella fattispecie un organo antico come quello di Donato Del Piano, per me è quindi è un ‘gioco filologico’».

 

Pensare e parlare come gli antichi

«Non ho mai pensato che il greco e il latino fossero lingue ‘morte’ – risponde prontamente alla provocazione -, e fin da quando ho iniziato a studiarle al Liceo Spedalieri di Catania la passione e la curiosità mi hanno spinto a trattarle come se fossero vive e attuali». Passione coltivata poi all’Università di Catania, nel corso di studi in Lettere antiche e nel dottorato di ricerca in Filologia greca e latina, sotto la guida della magistra Giuseppina Basta Donzelli.

«Ero convinto infatti, e lo sono tuttora – aggiunge Cipolla -, che l’unica maniera di conoscere veramente queste lingue sia sforzarsi di pensare come pensavano gli antichi e di parlare come parlavano loro. Il mio professore di filosofia al liceo diceva che non si conosce bene una lingua se non si arriva a usarla pure nei sogni. Con il greco e il latino non è facile, perché si tratta di ‘parlare’ con qualcuno che non c’è più, e che non può risponderci, almeno non nella maniera in cui questo avviene in una normale comunicazione. Ma un dialogo è comunque possibile, nel senso in cui lo intendeva Niccolò Machiavelli, che la sera si vestiva di panni reali e curiali e, aperto un libro, iniziava a discutere con Cicerone, con Livio e con gli altri grandi del passato, cercando risposte agli interrogativi del presente. Per dirla in latino: vita non tollitur, sed mutatur. La vita alle lingue antiche non viene tolta, non si perde, ma cambia».
 

Vivo dunque gioco

Il gioco è quindi un modo per riscoprire la vitalità di greco e latino. «Giocare, per l’essere umano, non è solo un passatempo infantile: è una potentissima strategia di apprendimento – spiega parafrasando Konrad Lorenz –. Giocando, i cuccioli dei leoni imparano a cacciare, gli uccellini a volare, i bambini a incarnare i ruoli che rivestiranno nella società degli adulti. Perché l’uomo, scrive Aristotele nella Poetica, è un animale mimetico, atto all’imitazione, ed è attraverso l’imitazione che acquisisce le prime nozioni. Applicato allo studio delle lingue, questo principio significa che per padroneggiarle dobbiamo ‘giocarci’, cioè provare a riprodurne il meccanismo comunicativo. In questo modo la grammatica cessa di essere un castello di regole astratte e di eccezioni per diventare parte della nostra mente e del nostro sentire».

È così che nasce la Nαυμαχία?

«Sì, è nata esattamente vent’anni fa tra i banchi del Liceo Cutelli, durante il mio primo anno da insegnante di latino e greco. Avevo pensato di inventarmi qualcosa che aiutasse i ragazzi a memorizzare i numerali, ed è venuto fuori questo giochino che i miei studenti hanno trovato molto divertente. Oltre ai numerali, si comincia a familiarizzare anche con il perfetto e con il suo valore aspettuale: quando una nave è ‘colpita e affondata’, βέβληται καὶ πεπόντισται, due verbi al perfetto che rendono chiaro il concetto di un’azione compiuta che produce uno stato permanente. Ma poi i miei allievi li ho fatti divertire anche con delle scenette in latino, ambientate in una mitologica quanto improbabile aula scolastica nei pressi dell’Olimpo...o magari del Parnaso, o dell'Elicona, faccia lei».

Lei invece si diverte di più con le retroversioni…

«Qui si tratta di giochi di altro livello, perché tradurre poesia è un esercizio letterario che facevano già gli antichi: Livio Andronico tradusse l’Odissea, Catullo tradusse Saffo e Callimaco, Cicerone tradusse Arato... Ma se per loro si trattava di ricreare nella propria lingua, naturalmente filtrandola attraverso la propria personale sensibilità, la poesia dell’originale greco, nel mio caso il percorso procede in direzione opposta: parte dal testo attuale per ricrearne uno greco. Lo scopo ovviamente non è rendere un testo italiano (o dialettale) comprensibile a un inesistente lettore che parla il greco antico, ma esplorare le potenzialità insite nella lingua greca, cogliere le affinità e le differenze tra i due codici comunicativi, e in qualche caso anche valorizzare la persistenza nel testo moderno di categorie mentali e linguistiche antiche».

Funziona anche con il dialetto siciliano?

«Certo che funziona, perché noi siciliani siamo eredi dei Greci! Quando ho tradotto “Si maritau Rosa” sono partito dalla constatazione di quante risonanze poetiche insospettabili ci fossero in questa poesia siciliana apparentemente semplice: dal contrasto iniziale fra la primavera in fiore e il tormento dell’anima, che mi ha fatto pensare a un frammento di Ibico di Reggio, al tema della donna sola, declinato in varie forme da Saffo a Teocrito all’anonimo dell’Esclusa, per finire a certe movenze popolaresche come il lamento sull’età non più giovanissima. E qui confesso che l’Epodo di Colonia di Archiloco mi ha servito su un piatto d’argento un formidabile aggettivo per rendere il siculo “rannuzza”: πέπειρα, pépeira, letteralmente “matura, stagionata”. In futuro, chissà, potrebbe arrivare la traduzione di “Ciuri ciuri”, o di “C’è la luna ‘mmenzu o mari”. Anche perché so di essere in buona compagnia: alcuni studenti dell’Università di Auckland hanno infatti magistralmente tradotto (e cantato!) in greco Mamma mia degli Abba...».

Le lingue antiche, afferma il prof. Dionigi, sono un'antenna che ci aiuta a captare tre dimensioni ed esperienze fondamentali: il primato della parola, la centralità del tempo, la nobiltà della politica. Anche per questo lei si è cimentato con un’elegia sul mai rimpianto tempo del lockdown? Oppure si tratta di un riuscito pesce d’aprile per intenditori?

«Diciamo che è un pesce d'aprile... ma Aristofane dimostra che anche ridendo si può parlare di cose terribilmente serie. Già il testo italiano di quell'elegia, inventato dall'ingegnere informatico Marcello Troisi e messo in rete sotto il nome del fantomatico Eracleonte da Gela, è una beffa geniale. Troppo bello, troppo ‘greco’ – ho pensato leggendolo – perché ci si debba rassegnare all’idea che non sia mai esistito un originale greco autentico! E allora, beffa nella beffa: se l’originale non c’è inventiamocelo, prendendo a modello l’elegia parenetica arcaica (quelle esortazioni a “combattere” il virus ricordano tanto Tirteo) e rivestendola di una veste dialettale dorica: se Eracleonte fosse esistito, avrebbe forse usato il dialetto dorico che si parlava a Gela; magari non proprio nel 233 a.C., quando la città non esisteva più, ma questo poco importa. Anche qui mi sono trovato in buona compagnia, perché la stessa idea è venuta anche a un mio collega, Michele Bianconi».

 

Gioco dunque suono

Perché definisce ‘un gioco filologico’ la musica eseguita su un organo come quello di Donato Del Piano?

«Uno strumento del ‘700, e questo strumento in particolare che all’epoca non aveva eguali, esige da chi lo suona lo stesso rispetto e lo stesso rigore che un papiro richiede a chi lo decifra: in questo caso bisogna conoscere le scritture antiche, le legature tra le lettere, i segni di abbreviazione e le altre convenzioni grafiche, così per suonare un organo antico bisogna calarsi nell’estetica musicale dell’epoca e capire che tipo di sonorità aveva in mente chi lo ha costruito. L’organo di San Nicolò, poi, è uno strumento sui generis, concepito per essere suonato da tre esecutori contemporaneamente, ma in una maniera ‘sinfonica’: i due organi laterali non sono completi e pensati per suonare autonomamente, ma piuttosto per imitare gli strumenti a fiato dell’orchestra mentre l’organo centrale esegue la parte degli archi. Di conseguenza, il modo migliore per valorizzare questo strumento è eseguirvi trascrizioni di partiture orchestrali come i concerti di Vivaldi e Tartini o le sonate da chiesa di Mozart».

Serve solo una grande tecnica, oppure c’è anche dell’altro?

«Uno dei requisiti indispensabili dell’arte organistica è l’improvvisazione, ossia la capacità di inventare una composizione musicale seduta stante. Nasce come esigenza liturgica per affiancare i momenti del rito rispettandone la durata, preparare il canto con un preludio che ne favorisca l’intonazione o aggiungervi una “coda” dopo che si è concluso. Ma poi diventa un momento creativo a sé, che storicamente si esprime ad esempio negli a solo e nelle cadenze dei concerti. Anche qui bisogna saperlo fare con stile: non posso improvvisare un ad libitum di un concerto per organo di Hændel con armonie wagneriane, non posso fare un preludio a un mottetto di Palestrina nello stile del barocco napoletano, e se suono uno strumento antico probabilmente dovrò anche tenere conto della sua accordatura, che preclude l’uso di determinate tonalità».

Lei ha anche scritto della ‘musica sacra’?

«Sì, l’attività di compositore viene a completare la mia tavolozza dei giochi. Ho cominciato più o meno nello stesso periodo in cui mi cimentavo con le prime creazioni nelle lingue antiche. Il principio è lo stesso: scrivere musica nella maniera antica, nel mio caso soprattutto barocca, significa impadronirsi dei meccanismi e delle logiche compositive dei grandi maestri per capire e interpretare meglio i loro capolavori. Ma anche per ritornare alle radici, in un momento in cui è difficile trovare compositori che riescano a farsi apprezzare da tutte le età e da tutte le tipologie di pubblico: Frescobaldi, Haendel, Scarlatti, in questo senso, erano delle star, e così le colonne del nostro melodramma, da Bellini a Donizetti, da Rossini a Verdi, e oggi Ennio Morricone, che non a caso ha sempre tenuto presente la lezione dei classici (il famoso “Gabriel’s Oboe“ da “Mission“ non sfigurerebbe accanto a certi adagi di Vivaldi o di Marcello)».

C’è qualcuno a cui lei si richiama come compositore?

«Sicuramente Bach, che per me è “il” compositore di musica sacra per antonomasia. Ma anche Palestrina, Frescobaldi, Monteverdi, Vivaldi, senza disdegnare qualche contaminazione col contemporaneo. Quando ho musicato, ormai più di dieci anni fa, lo “Stans beata Agatha”, l’antifona dei primi vespri di Sant’Agata che si celebrano ogni anno il 4 febbraio nella chiesa di Sant’Agata la Vetere, ho avuto davanti due modelli: Vivaldi e Morricone. Non so se la sintesi sia riuscita bene, questo naturalmente non spetta a me dirlo. Purtroppo la pandemia ci ha privati di questo momento: speriamo, dal prossimo anno, di poter tornare a celebrarlo».

Un auspicio, questo, che risuona bene con l’esortazione conclusiva della semiseria elegia di Eracleonte: “Siamo forti e abbiamo sconfitto molti popoli / e costruito grandi città / aspettiamo che questo male muoia / restiamo nelle case / e tutti insieme vinciamo”.