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Il direttore della Scuola di specializzazione in Beni archeologici Dario Palermo ricorda il suo maestro. Il 24 novembre al Palazzo centrale un convegno in memoria del docente
Conobbi Giacomo Manganaro nell’anno accademico 1970-1971, quando, ancora studentello di belle speranze, frequentavo le aule della Facoltà di Lettere dell’università di Catania, inconsapevole di star vivendo una stagione forse irripetibile della “storia accademica” di quella Facoltà, allorché vi si poteva apprendere la dura disciplina degli studi classici dall’insegnamento diretto di grandi maestri, che rendevano a quel tempo l’ateneo catanese un centro di studi umanistici rinomato e rispettato in campo nazionale e internazionale.
Ben poco sapevamo noi studenti di quell’ancora giovane professore, che insieme a Mario Mazza trasmetteva a noi discenti la grande tradizione di studi storici di Santo Mazzarino; la sua disciplina si intitolava “Antichità greche e romane”, e le sue lezioni si tenevano tre pomeriggi alla settimana in una delle aule del pianterreno del Palazzo Centrale di Piazza Università.
Imparammo però presto a conoscerlo, dietro l’apparente modestia della disciplina, che non rientrava tra le “fondamentali” e dietro l’apparenza affabile e del tutto priva di sussiego accademico del docente, che spesso, finita la lezione, invitava i pochi allievi che lo seguivano - la sua materia era percepita infatti fra quelle difficili da sostenere, e non molti ardivano affrontarla - ad accompagnarlo al bar per bere qualcosa in sua compagnia e proseguire in maniera più rilassata e amichevole le discussioni che si accendevano in aula, si nascondeva uno studioso di profonda cultura, affinata in lunghi decenni di studi nei più avanzati centri di ricerca d’Europa, dove aveva intrecciato relazioni con i più illustri studiosi dell’Altertumswissenchaft del tempo, che allora era appunto soprattutto in mano a studiosi di ambiente tedesco.
Alla sua esperienza di storico dell’antichità non mancava nemmeno l’approccio all’archeologia sul campo, praticata nella difficile scuola dello scavo del Palazzo minoico di Festòs durante l’alunnato della Scuola Archeologica Italiana di Atene, nella consapevolezza che la conoscenza del mondo antico può passare solo attraverso il convergere delle diverse discipline che lo riguardano.
Ricchissimo il contenuto delle sue lezioni, che spaziavano in varie direzioni, dalla numismatica all’epigrafia alla storia delle istituzioni, agli aspetti fiscali e all’economia dell’impero romano; indimenticabili le sue lezioni sull’organizzazione dell’esercito romano dalla riforma mariana all’impero, e appassionanti quelle sulle iscrizioni magiche di Sicilia.
Attraverso questi argomenti Egli ci dava prova della larghezza della sua cultura e della vastità dei suoi interessi scientifici, sempre prendendo le mosse dalla documentazione pertinente, che ci forniva sotto forma di un voluminoso fascicolo ciclostilato contenente brani di autori antichi e soprattutto epigrafi, coinvolgendoci poi nella lettura, stimolandoci all’interpretazione di brani e termini poco chiari; ricordo ancora come interessante e coinvolgente, e a tratti anche divertente, sia stata per noi la lettura dell’Edictum de pretiis dioclezianeo, cercando di identificare i diversi elementi della grande tabella merceologica che lo compone…
Insieme a lui facemmo anche un memorabile viaggio di istruzione a Lipari, dove tutti insieme, studenti e professori, pernottammo insieme nella camerate dell’ostello, che ancora era collocato nelle baracche dei confinati politici sul Castello, accanto al Museo Archeologico. In quella occasione ci introdusse all’epigrafia liparota, esercitandoci sulle decine di epigrafi funerarie che gli scavi di Luigi Bernabò Brea effettuava in quegli anni nelle necropoli di contrada Diana avevano portato alla luce.
Fu poi mio insegnante di Epigrafia anche alla Scuola di Perfezionamento in Archeologia a Siracusa, e lì ci introdusse al “mestiere” di epigrafista, dall’uso della carta assorbente intrisa di acqua e battuta con lo spazzolone per ricavare calchi, all’utilizzo del carboncino per mettere in evidenza quei segni minuti sulla superficie tormentata delle pietre antiche; ma soprattutto ci fece esercitare, lui che veniva dalla grande scuola di Louis Robert, nell’arte più difficile dell’epigrafista, quella dell’integrazione in cui egli eccelleva, che nel ricostruire testi di cui si conservano solo parti richiede sensibilità, esperienza e conoscenza approfondita dell’onomastica antica, della toponomastica, della lingua nei più diversi periodi e ambienti geografici, dei formulari giuridici e perfino, in certi casi, della metrica e della prosodia.
Una scuola attenta e completa, della quale porto con me, pur non avendo mai fatto di mestiere l’epigrafista, l’insegnamento pratico e soprattutto la grande lezione metodologica del corretto modo di porsi di fronte alla testimonianza antica.
Dopo di allora, i nostri cammini si divisero, ed Egli transitò dalla cattedra di Antichità a quella di Storia Greca; continuammo però ad incontrarci spesso nei corridoi e nelle biblioteche di Lettere e di Archeologia, dove lui era sempre intento allo studio, all’esame di qualche piccolo o grande oggetto antico che si presentava alla sua considerazione e dal quale traeva elementi di conoscenza storica sempre nuovi, e sempre pronto a condividere le sue scoperte con chi, come me, non mancava ogni occasione di continuare ad apprendere dalla Sua viva voce anche in occasioni meno formali della lezione universitaria; e che oggi, a meno di due anni dalla Sua scomparsa, piange la scomparsa di un Uomo e di un Maestro che tanta parte ha avuto nella sua formazione di studioso dell’Antichità.
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