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Il sito del nuovo organo ufficiale d'informazione d'ateneo è accessibile all'indirizzo www.unictmagazine.unict.it
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Intervento del prof. Guido Nicolosi, Presidente del Corso di laurea magistrale in Sociologia delle reti, dell’informazione e dell’innovazione dell’Università di Catania
Il calendario civile dell’Onu, il 18 giugno celebra la Giornata internazionale per contrastare i discorsi d’odio. Questa ricorrenza trova il suo fondamento nella Risoluzione 75/309 che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato il 21 luglio del 2021, volta a promuovere il dialogo interreligioso e interculturale e la tolleranza.
Pilastri fondamentali di questa risoluzione sono: il rispetto per i diritti umani, la lotta contro tutte le forme di intolleranza basate su qualsiasi credo, la cultura della pace, il rifiuto della violenza e la lotta contro la misinformazione e la disinformazione. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, risulta centrale il riferimento dell’Assemblea al ruolo particolarmente negativo giocato dalle false informazioni (fake-news) nel corso della pandemia da COVID-19.
Nonostante i principi evocati da questa risoluzione siano ampiamente condivisi e accettati, è inutile negare che quando si passi dal piano astratto dei principi e delle intenzioni a quello concreto delle azioni, gli attori istituzionali devono necessariamente fare i conti con alcune contraddizioni e diverse criticità che toccano importanti questioni di ordine giuridico, politico e sociale. Qui, mi limiterò a delinearne tre, reciprocamente legate: a) è sempre possibile definire con chiarezza un discorso d’odio o una falsa informazione? b) Quali sono i rischi implicati da una regolamentazione giuridica dei discorsi d’odio per la libertà d’espressione? c) Qual è il ruolo giocato dalle piattaforme tecnologiche della comunicazione nella “gestione” dell’odio in rete?
Sul primo aspetto, quando il linguaggio ordinario lascia il campo alla riflessione scientifica, il concetto di “discorso d’odio” si presenta come improvvisamente “scivoloso”. Nonostante già nel 2018 le Nazioni Unite abbiano elaborato un piano d’azione, con l’obiettivo di cercare le cause profonde, anche socio-economiche, della proliferazione del fenomeno, valorizzare il counter speech e promuovere attività di advocacy, e strategie a sostegno delle vittime, ad oggi non esiste una definizione internazionale univoca di hate speech. Parimenti, anche a livello europeo, non esiste una definizione giuridicamente vincolante (dal 1997 esiste una raccomandazione del Consiglio d’Europa).
La difficoltà ad approdare a formule definitorie accettate e condivise deriva dal fatto che il linguaggio è un codice simbolico aperto, esposto a complessi “giochi” espressivi. La sua ricchezza deriva proprio dalla sua polisemia costitutiva e dalla forza dei processi interpretativi implicati. Nel linguaggio politico, in particolar modo, dove questa qualità viene esaltata e radicalizzata al fine di delimitare i confini simbolici delle appartenenze, comprendere quando una libera manifestazione del pensiero, di un ideale, di una dottrina ideologica possa scaturire in dichiarazioni di inferiorità, di discriminazione e quindi di odio non è sempre facile. Ovviamente, ci sono dei casi eclatanti ed evidenti, ma ciò che rileva è l’enorme zona grigia creata dalle numerose situazioni limite.
Anche il concetto di fake-news risulta essere connotato da una certa dose di ambiguità. Come dimostra la spinosa questione della cosiddetta “fatticità”. Ovvero, una notizia per essere vera deve fondarsi su fatti reali e concreti. Tuttavia, nel caso di breaking news su eventi emergenti e su cui non si hanno informazioni pregresse disponibili, individuarli potrebbe essere problematico. L’autorevolezza della fonte potrebbe colmare questo vuoto, tuttavia, le fonti autorevoli non sono garanzia assoluta di veridicità (e viceversa).
Le fake-news non sono un fenomeno nuovo e non nascono con l’avvento dei social media, anche se certamente le caratteristiche di produzione e di fruizione dell’informazione (disintermediazione) che questi sottendono rappresentano altrettante importanti discontinuità col passato che rendono particolarmente complessa la situazione odierna. Tuttavia, la storia dei mass-media è farcita di notizie false. La letteratura scientifica di riferimento ha dimostrato inequivocabilmente il ruolo giocato dalle distorsioni involontarie nei processi di news-making, frutto delle logiche di notiziabilità o di una difettosa attività di controllo, ma anche di quelle volontarie volte alla manipolazione.
Sarà sufficiente ricordare in epoca relativamente recente gli errori e le negligenze commessi dai principali media occidentali in occasione della guerra in Iraq. Molti eventi ripresi ed amplificati dai circuiti di comunicazione mainstream e che condizionarono le opinioni pubbliche mondiali si dimostrarono successivamente falsi. I media col tempo ammisero l’errore. Clamoroso il mea culpa del prestigiosissimo New York Times, quando però ormai il danno era fatto.
La rappresentazione mediatica del conflitto Russo-Ucraino, oggi, a causa del ruolo rilevante giocato dai social media presenta sfide nuove dal punto di vista della gestione della comunicazione. Tuttavia, alcuni scivoloni imbarazzanti dei principali media tradizionali, ci hanno già dimostrato come quei rischi non siano svaniti, ma anzi siano stati amplificati dal nuovo e più complesso panorama mediatico.
Altro aspetto da prendere in considerazione riguarda il peso negativo giocato dagli attori politici nella svalutazione di senso del termine fake-news. Da tempo ormai, assistiamo ad una polarizzazione della declinazione semantica del concetto, utilizzato in maniera indiscriminata per screditare gli avversari e le fonti disallineate. Questa politicizzazione ha reso il termine una sorta di buzzword usata con lo scopo di minare la credibilità delle fonti sgradite che non giova a creare chiarezza.
Certamente, oggi, non esiste unanimità tra gli esperti nella definizione dei confini di ciò che andrebbe considerato “fake-news”. Ad esempio, nonostante il termine sia stato utilizzato per descrivere contenuti anche nell’ambito degli spettacoli satirici, la questione rimane ancora molto controversa. Anche il tema dell’intenzionalità è oggetto di acceso dibattito. Secondo alcuni studiosi, le notizie false veicolate involontariamente dai media andrebbero escluse dal novero. La questione è aperta.
Altra criticità riguarda la legittimità di una classificazione binaria di tipo: vero/falso. Per questo, oggi, una buona parte dei siti professionali di fact-checking preferisce usare continua ad ampia gamma (contenenti fino a 12 categorie: falso, parzialmente falso, vero, prevalentemente vero, ecc.). Ciò è scientificamente corretto, ma appunto non contribuisce a sgombrare il campo da possibili ambiguità.
Legittimo chiedersi se sia possibile individuare con certezza una notizia come falsa o vera. La risposta è ovviamente positiva, così come è possibile sviluppare azioni mirate di contrasto ai discorsi d’odio: chi scrive ne ha diretta una con gli studenti dell’Università di Catania con un programma finanziato da Facebook nel 2018. Tuttavia, non è un’operazione semplice. Necessario poter incrociare l’analisi di diversi fattori, tra cui, ad esempio:
La questione rimane estremamente delicata. Se è auspicale sollecitare azioni di contrasto comunicativo, in una libera competizione “discorsiva”, la decisione di intervenire attraverso limitazioni censorie può produrre pericolosi effetti collaterali. La contropartita di una più o meno radicale regolamentazione giuridica della produzione delle notizie è infatti una limitazione della libertà di espressione e del diritto fondamentale di ogni utente di esprimere le proprie opinioni, così come degli sforzi dei giornalisti di informare.
Parimenti, appare sempre più rilevante il tema dell’indipendenza degli attori impegnati nell’attività di debunking. Questa attività diventerà sempre più cruciale nell’accreditamento delle fonti e delle notizie. Il rischio di possibili conflitti di interessi è sempre in agguato. La questione è emersa con forza nel caso del finanziamento da parte del gigante farmaceutico Pfizer dell’International Center For Journalists (ICFJ), organismo professionale impegnato a formare anche i fact checkers di Facebook.
Quest’ultimo aspetto è di particolare rilievo, nella misura in cui tutti gli analisti concordano nel riconoscere alla “piattaforme” digitali di comunicazione (Facebook, Twitter, Instagram) un ruolo decisivo nel garantire l’accesso (o l’esclusione) dei cittadini e degli attori politici alla sfera pubblica (la cosiddetta “piattaformizzazione”). Si tratta di una funzione fondamentale nelle società democratiche, che in passato veniva garantita dalla stampa, dai tradizionali media e da varie altre agenzie di socializzazione col supporto finanziario e l’intervento regolativo, diretto o indiretto, dello Stato.
Sempre di più, “esistere” socialmente e politicamente dipende dalla possibilità di accedere a queste arene digitali, come dimostrano emblematicamente e in maniera eclatante i casi “Cambridge Analytica” e “Trump/Twitter”. Tuttavia, appare sempre più evidente come oggi questa funzione sia stata delegata ad attori privati transnazionali su cui lo Stato ha una sempre minore influenza.
Alla luce delle considerazioni realizzate fin qui, la domanda che in questa giornata così importante appare lecito formulare è la seguente: è possibile accettare che la linea di confine tra diritti così fondamentali e contrapposti come la libertà di espressione online da un lato e la tutela delle vittime di espressioni d’odio e fake news dall’altro sia tracciata da un privato, azienda o social network? Siamo certi che la nostra cittadinanza digitale possa serenamente fondarsi su una tale marcata marginalizzazione dell’autorità pubblica?
Il prof. Guido Nicolosi