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Giornata internazionale del Multilateralismo e della Diplomazia per la Pace

Intervento della prof.ssa Daniela Irrera, associato di Scienza Politica e Relazioni Internazionali al Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Catania e Presidente della European Peace Research Association

23 Aprile 2021
Daniela Irrera

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha istituito la Giornata internazionale del Multilateralismo e della Diplomazia per la Pace, il 24 aprile. Affinché tale ricorrenza non si fermi ad una mera celebrazione ma si carichi di reale significato e produca risultati concreti, è necessario riflettere non soltanto su quanto la pace continui ad essere un obiettivo tanto vitale quanto lontano, ma anche sugli attori, strumenti e pratiche necessari per il suo rafforzamento.

Il modello di multilateralismo, impostosi alla fine della Seconda guerra mondiale e che ha dato vita al sistema di sicurezza collettiva all’interno dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, era volto certamente ad evitare una nuova guerra, ma anche ad assicurare l’equilibrio del potere, delle coalizioni e delle sfere di influenza. Se, da un lato, era impossibile prevedere un assetto meno realista in un periodo storico che si avviava alla Guerra Fredda e alle dinamiche bipolari, dall’altro,  tra crisi e sforzi diplomatici, il multilateralismo ha permesso il raggiungimento di alcuni importanti risultati. Gli studiosi di Relazioni Internazionali hanno analizzato il modo in cui la diplomazia, la gradualità dell’azione, il ricorso alla guerra solo come strumento di ultima istanza abbiano guidato la condotta degli stati e favorito la convergenza in molti settori di policy, dal commercio internazionale alla non proliferazione nucleare agli aiuti allo sviluppo. La prevedibilità dell’azione ed il coordinamento hanno anche permesso la nascita ed il rafforzamento di istituzioni e partenariati cruciali, a livello regionale e globale, trovando nell’Unione Europea la forma più profonda, almeno nelle intenzioni, di integrazione e potenza civile.

In realtà, il sistema umanitario globale voluto e predisposto dagli stati appare incapace di proteggere gli individui da minacce e disastri di ogni genere, in rapporto alle risorse e strumenti disponibili.

Il modello di pace liberale, prodotto dal sistema multilaterale, e legato agli interventi umanitari, alla predisposizione di programmi standard di aiuti allo sviluppo e di supporto alla democratizzazione, non è riuscito nell’intento di diffondere ovunque la cultura dei diritti umani, i valori della pace democratica e dello sviluppo sostenibile. Al contrario, il sistema internazionale continua a presentare ampie sacche di povertà, disuguaglianza economica e sociale diffusa, regimi illiberali che brutalizzano i propri cittadini (Myanmar, Corea del Nord), minoranze perseguitate (Curdi, Rohingya, Uiguri), conflitti civili combattuti da guerriglieri di natura varia ed indefinita (Libia, Mali), guerre di prossimità entusiasticamente sostenute da voraci potenze straniere (Siria, Yemen).

Un complesso di insicurezze ed instabilità politica che la pandemia globale ha amplificato e, in molti casi, accelerato, nonostante gli appelli del Segretario Generale della Nazioni Unite, Antonio Gutierrez, a favore di un cessate-il-fuoco immediato e globale.

Già da parecchi decenni e ben prima dell’esplosione del COVID-19, nonostante il suo radicamento su principi universali e pratiche largamente condivise, il sistema umanitario globale appare molto lontano dagli standard di efficienza ed inclusività che si prefigge. Dopo decenni di crisi umanitarie, risulta evidente quanto la strategia multilaterale debba essere adattata alle trasformazioni in corso, aggiornando priorità, pratiche, politiche e tenendo conto di tutti gli attori, governativi, intergovernativi e non-governativi in grado di offrire competenze e conoscenze.

Così come le guerre e le minacce alla sicurezza, anche la pace può essere raggiunta nelle sue forme ibride. La letteratura di Peace Research ha dimostrato come in molti contesti afflitti da guerre civili lunghe e divisive la pace può essere maggiormente stabile e duratura se risultato di interazioni tra interventi esterni ed attori locali. Forme ibride ed alternative di peacebuilding possono essere implementate solo con l’aiuto delle comunità che hanno sperimentato il conflitto in prima persona e più efficacemente di quanto le operazioni di pace possano fare, puntando sul rafforzamento della giustizia sociale, sul sostegno alle comunità locali, sulla parità di genere, sul dialogo inter e intra-comunitario. Lungi dall’essere solo un esercizio teorico, il modello della pace ibrida rappresenta invece uno strumento di diplomazia creativa, anche se talvolta controverso, applicato sul campo da operatori umanitari, stakeholders e staff di missioni civili e integrate in varie regioni del mondo.

Il multilateralismo ha, dunque, prodotto forme avanzate di cooperazione tra stati, istituzioni attive in tutti i principali settori di policy e coordinamento con attori non statali. Fatica, però, a sviluppare meccanismi di gestione delle crisi coerenti con i principi universali e con gli interessi sociali prioritari. Di conseguenza, fatica a prevenire la marginalizzazione dei più vulnerabili, ossia una delle componenti più rilevanti di una pace stabile.

La pandemia ha dimostrato in modo ancora più visibile, quanto gli stati abbiano scarsamente investito in meccanismi di preparazione e prevenzione e quanto, nei dibattiti pubblici si continui a parlare di resilienza, più che di vulnerabilità. Anche in questo ambito, il multilateralismo ha prodotto una cooperazione globale e regionale ma le definizioni più importanti e condivise, dall’ONU all’UE, si concentrano separatamente sui fattori interni ed internazionali che creano le condizioni di vulnerabilità e sulle categorie considerate maggiormente a rischio. Se migranti e rifugiati, civili colpiti da guerre e da situazioni di povertà endemica e sottosviluppo, così come civili esposti a pratiche illiberali violente costituiscono delle classi permanenti di vulnerabili, rintracciabili in vari periodi storici e in molte regioni del sistema, si modificano le condizioni che ne determinano l’esposizione alla vulnerabilità, così come le implicazioni e le pratiche e politiche necessarie per offrire la necessaria assistenza. Lo spostamento di fondi governativi da altre politiche umanitarie, le restrizioni alle frontiere, la limitazione della libertà di espressione e di protesta sono misure sempre più frequenti in tempi recenti, giustificate della protezione della salute pubblica.

Si tratta, però, di misure che mettono in pericolo l’essenza stessa delle pratiche multilaterali ed evidenziano  quanto stati ed istituzioni intergovernative debbano ridefinire chi va protetto in via prioritaria e che le stesse pratiche utilizzate fino ad ora vanno aggiornate ed adattate al mondo post-COVID 19. Tra le categorie ‘permanenti’ che vanno ripensate rientrano anche le donne, il cui ruolo nella gestione delle crisi e rafforzamento della pace è tanto essenziale quanto controverso. La risoluzione ONU 1235 del 2000 su Donne, Pace e sicurezza (della quale è stato recentemente celebrato il ventesimo anniversario), ha messo in evidenza non soltanto quanto le donne soffrano gli effetti di un conflitto armato, ma anche quanto sia specifico il loro contributo ai processi di pace, al consolidamento di pratiche democratiche e all’implementazione di programmi di sviluppo economico e sociale.

Se è vero che non è possibile sperare nella pace fino a quando larghe fette di comunità saranno esposte a fattori di vulnerabilità, è anche altrettanto vero che non cogliere la specificità del ruolo delle donne costituisce un’occasione mancata ed un clamoroso spreco di risorse. Anche di questo il sistema multilaterale dovrà occuparsi, per sopravvivere ai fallimenti causati dalla pandemia e capitalizzare quanto questa sta insegnando, in termini di ripensamento delle priorità alla base delle strategie globali e regionali.

Il sistema politico globale che si appresta ad entrare nella fase post-pandemica continuerà ad essere caratterizzato da conflitti, sottosviluppo ed instabilità, mentre i vulnerabili bisognosi di protezione e supporto cresceranno considerevolmente. Nel mondo post-pandemico, gli stati resteranno gli attori politici principali, ma non avranno alternativa se non l’approfondimento delle pratiche multilaterali. Dovranno inoltre riconoscere ed accettare che le pratiche multilaterali convivano e si coordinino con la nutrita comunità di attori non-governativi che, già da decenni, contribuiscono alla elaborazione e adattamento delle politiche globali.  

Un modello sostenibile e praticabile di pace non può che essere pragmaticamente ibrido e passare attraverso una combinazione di azioni umanitarie, programmi di sviluppo, e misure di protezione da testare e rivedere, sulla base dei bisogni reali e con il sostegno delle comunità locali.

Daniela Irrera

Daniela Irrera è associato di Scienza Politica e Relazioni Internazionali presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Catania e Presidente della European Peace Research Association (EuPRA)