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Lo studio pubblicato sulla rivista Nature Ecology and Evolution
Quale è l’estensione delle aree naturali da proteggere dall’azione dell’uomo al fine di tutelarne la biodiversità? Una domanda chiave per comprendere se la biodiversità cambi con l’aumento dell’area e se questa relazione può far comprendere l’entità degli impatti della distruzione dell'habitat sugli ecosistemi del nostro pianeta.
Le interazioni tra le specie (“relazioni trofiche”, ovvero chi mangia chi o chi si ciba di cosa) variano difatti con il cambio della biodiversità in quanto le singole specie sono incorporate in reti complesse.
Pertanto, per caratterizzare pienamente la biodiversità nel suo insieme e prevedere le risposte degli ecosistemi alle attività umane è fondamentale capire come la struttura di queste reti complesse cambi con l’aumento dell’area protetta.
Il prof. Christian Mulder del Dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali dell’Università di Catania, insieme con un team internazionale di ricercatori di diversi continenti, in una recente analisi, ha segnalato una serie di nuove relazioni matematiche usando diversi biomi, differenti tipi di interazione (ospite-parassita, pianta-impollinatore, pianta-erbivoro e altre reti alimentari).
Un nuovo studio – dal titolo Ecological network complexity scales with area e pubblicato nei giorni scorsi dalla rivista Nature Ecology and Evolution –consentirà anche la valutazione dell’area minima di aree protette onde garantirne la sopravvivenza.
«L’aumento del numero di interazioni in cui ciascuna specie è coinvolta all’aumentare dell'area indica che le interazioni sono ben più vulnerabili alla perdita di habitat rispetto alla ricchezza di specie – spiega il docente -. Pertanto le conseguenze della sistematica distruzione antropica degli habitat possono estendersi dalla diminuzione di biodiversità a una più ampia semplificazione delle strutture delle comunità naturali, con ulteriori effetti a cascata per il funzionamento degli ecosistemi su insetti impollinatori e predatori».