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Intervento della prof.ssa Daniela Irrera di Relazioni Internazionali del Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Catania
Nonostante settimane di fibrillazione, durante le quali, un attacco militare nella regione del Donbass è stato dichiaratamente negato o dato per altamente improbabile da parte di Vladimir Putin, l’annuncio di una "operazione militare speciale" è giunto repentino e sinistro.
L’analisi degli eventi che si succedono di ora in ora permettono di immaginare molti possibili scenari, ma, alla luce della strategia seguita da Mosca già a partire dal 2014, confermano una strategia molto lucida e razionale. Soprattutto, una strategia guidata da obiettivi precisi.
La necessità di proteggere il cosiddetto ‘mondo russo’, ossia l’insieme delle comunità russe, sparse nei vari territori che costituivano l’Unione Sovietica, è stata più volte invocata da Putin per legittimare interventi di varia natura.
La sfera d’influenza russa - dal Caucaso meridionale all’Asia Centrale - è una vasta zona percorsa da gasdotti strategici, governata da élites politiche instabili e afflitta da numerosi problemi di sicurezza, oltre che da frozen conflicts, come il Nagorno-Karabakh. Una zona estremamente fragile, in cui i nazionalismi si scontrano con istanze di cambiamento e desideri di democratizzazione, spesso sfociati in rivoluzioni e proteste di massa.
L’Ucraina è un caso paradigmatico di tali processi. L’invasione del paese nel 2014, a seguito della deposizione del presidente filorusso, Viktor Yanukovych, cui è seguita l’annessione della Crimea, ha lasciato aperto il fronte a est, nelle regioni del Donetsk e Luhansk, in cui la Russia ha cominciato a sostenere i ribelli pro-Russia, contro l’esercito ucraino, deciso a mantenere l’unità territoriale del paese.
Di fatto, a partire da allora, la zona vive uno stato di perenne instabilità, che ha già prodotto migliaia di vittime, ed i cui effetti sono stati semplicemente limitati da un accordo di pace, firmato a Minsk, e nel corso del quale, la Russia ha gioca il ruolo del peacekeeper. Secondo tale accordo, le regioni di Donetsk e Luhansk avrebbero dovuto godere di uno status speciale all'interno dell'Ucraina.
Per la sua posizione strategica, le risorse di cui dispone e l’evidente apertura mostrata anche dall’attuale presidente, Volodymyr Zelenskyj, l’Ucraina è stata fortemente supportata dall’Occidente, ma più di un partenariato con l’Unione Europea, è un eventuale allargamento della Nato a suscitare le preoccupazioni di Putin, che preferirebbe un’Ucraina meno aperta all’occidente e certamente smilitarizzata.
Le cosiddette repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk sono state fino ad ora popolate da cittadini ucraini cui la Russia ha riconosciuto la cittadinanza e l’elettorato politico. Il decreto, con il quale vengono riconosciute come indipendenti, legittima le truppe russe e le autorizza a procedere alla protezione di quelli che sono a tutti gli effetti dei cittadini russi. Di fatto, i ribelli passano dallo status speciale, previsto dagli accordi di Minsk, ad un progetto di vera e propria espansione. Tale escalation militare ha di fatto bloccato tutti gli sforzi diplomatici, multilaterali o bilaterali, intrapresi da UE e Stati Uniti.
A questo punto si aprono diversi scenari. Il compimento dell’invasione dell’Ucraina – già in corso – è il più temuto. Partendo da est, mobilitando le truppe presenti in Crimea, e con il supporto della Bielorussia, potrebbe compiersi la riunificazione di quella che Putin ha definito una sola nazione.
In parallelo l’invasione comporterebbe anche un cambiamento di regime, provocando il rovesciamento del governo democraticamente eletto. Considerando la presenza militare russa, già ampiamente consolidata sul territorio negli anni e la probabile presenza di mercenari – il Donbass è stato un campo di addestramento ideale per molte compagnie russe - questa potrebbe essere un’operazione relativamente facile e veloce.
L’opzione politica passerebbe inevitabilmente attraverso una ridefinizione del ruolo della Nato nell’area, un ‘momento della verità’ avanzato da Putin nei confronti dell’Alleanza. Un impegno vincolante che la Nato non si espanderà ulteriormente e che, soprattutto, l’Ucraina non entrerà a farne parte risulta estremamente difficile da negoziare.
L’opzione diplomatica appare molto lontana in questo momento ma rimane sempre sullo sfondo. Una serie di trattative che non soltanto assicurino la neutralità dell’Ucraina, ma modifichino le relazioni di sicurezza in tutta l’area, potrebbe essere sufficiente per non rendere più necessaria l’operazione militare.
Altre variabili rilevanti possono influenzare tali scenari. Da un lato l’élite politica ucraina, combattuta tra la frammentazione del proprio territorio e la necessità di ricorrere ad aiuti esterni, senza una precisa garanzia; dall’altro l’Occidente, stretto tra una strategia della Nato non ancora definita - e che dovrebbe produrre solo un supporto all’esercito locale - ed una serie di sanzioni, variamente interpretate e paventate da USA, Gran Bretagna e Unione Europea.
Tutti gli scenari sono possibili in un quadro di estrema imprevedibilità, ma quanto sta accadendo in Ucraina ha i caratteri di un’altra proxy war, destinata ad utilizzare specifici territori per definire assetti regionali e globali più ampi. Rispetto ad altri casi, quali la Siria o lo Yemen, si tratta di una guerra probabilmente molto più breve e condotta secondo una strategia razionalmente programmata. Si tratta già di una crisi globale, dai risvolti politici, militari, umanitari, oltre che, naturalmente, economici e che mostra, in modo drammaticamente visibile, quanto gli equilibri di potere all’interno dell’ordine politico globale siano già cambiati.
La docente Daniela Irrera