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Il sito del nuovo organo ufficiale d'informazione d'ateneo è accessibile all'indirizzo www.unictmagazine.unict.it
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Intervento del prof. Luigi Caranti del Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Catania
Il 10 dicembre del 1948 l’Assemblea generale dell’ONU proclamava la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Il documento era così importante che la difesa dei diritti elencati in esso era ed è parte della ragion d’essere di quell’organizzazione. Certo, l’ONU fu creata soprattutto per mantenere la pace appena riconquistata dopo gli orrori del secondo conflitto mondiale, ma i padri fondatori avevano chiaro che le guerre, interne ed internazionali, sarebbero state in futuro tanto meno probabili quanto più alto fosse stato il livello di protezione di quei diritti. I diritti umani dovevano essere difesi non solo in quanto espressione della intrinseca dignità di ciascun essere umano, come recita la prefazione della Dichiarazione, ma anche perché strumentali al mantenimento del bene supremo della pace tra i popoli e all’interno dei popoli.
Se a distanza di 70 anni dovessimo fare una classifica di quali dei 30 diritti elencati in quel documento sono stati meno rispettati, pochi avranno da obiettare se ai primi posti mettessimo i diritti socio-economici (articoli 22-26), ossia il diritto ad avere quelle risorse materiali minime necessarie per la sua dignità di persona (art. 22), a un lavoro adeguatamente retribuito (art. 23), a delle ferie pagate (art. 24), a “un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari” (art. 25), all’istruzione di base (art. 26) e soprattutto “ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati” (art. 28).
Se pochi contesteranno questa classifica è perché allora come ora il problema morale più importante dei nostri tempi e la più grande tragedia della storia dell’uomo era e rimane la povertà, aggravata in tempi recenti dalla rampante ineguaglianza tra i ricchi e i dannati della Terra. Fornire una stima delle terrificanti dimensioni della povertà a chi non ne ha un’idea precisa è impresa a un tempo semplice e paralizzante. È semplice perché per quantificarla bastano i più recenti dati della Banca Mondiale: nel 2017 erano 696 milioni le persone a vivere sotto la soglia di povertà – fissata a una disponibilità di1,9 dollari al giorno -, 2,2 miliardi non hanno accesso all’acqua potabile, 4,2 miliardi non dispongono di misure igieniche di base. Secondo la Fao, nel 2019 oltre 688 milioni di persone viveva senza cibo sufficiente. E si può agevolmente continuare dicendo che circa la metà della popolazione mondiale non ha accesso a medicinali essenziali, che per l’Unesco quasi un adulto su quattro nel mondo è analfabeta e l’Unicef denuncia che il 10% dei bambini del mondo è costretto a lavorare. Ancor più semplice è presentare i dati in modo che suscitino stupore, dicendo, ad esempio, che ogni giorno 50.000 persone, di cui quasi 30.000 bambini, muoiono prematuramente per cause associate alla loro condizione di povertà. Come accadrebbe in un film di fantascienza, è come se ogni giorno sparisse l’intera popolazione di una cittadina italiana di media grandezza.
Queste cifre da sole non sono però sufficienti a rappresentare la portata della povertà, poiché non ne esprimono le cause. Possiamo provare pietà leggendo le cronache medievali sul dolore causato dalla peste, rimanere atterriti di fronte alla furia assassina dello Tsunami, simpatizzare con quanti iniziarono a dubitare di vivere nel migliore dei mondi possibili dopo il terremoto di Lisbona del 1755 e con quanti, in vari modi, hanno toccato con mano la vulnerabilità umana di fronte a forze immensamente più grandi di noi. Ma se pensassimo alla povertà e alle sue vittime in questi termini, vale a dire come a una catastrofe naturale che porta con sé il suo inevitabile bagaglio di morte, compiremmo un errore enorme, intellettuale e morale. Ed è a questo punto che fornire delle cifre comincia ad essere paralizzante. Nel 2005 soltanto il 2,35% della spesa globale per consumi del andava attribuita agli oltre tre miliardi di poveri, mentre l’80% al miliardo di persone che vivono nei Paesi ad alto reddito. Questo resta un Leitmotiv molto amato dal movimento No global e forse pochi ne rimarranno colpiti. Ma se dicessimo che quasi 500 miliardi di dollari all’anno andrebbero ai poveri se solo noi ricchi rinunciassimo allo 0,02% della nostra spesa per consumi? E se aggiungessimo che questa cifra sarebbe sufficiente per strapparli alla povertà estrema?
A questo punto non possiamo non pensare, per esempio, a cosa corrisponde la nostra rinuncia all’ultimo modello di smartphone per le sorti dei nostri simili lontani. E anche se la misura precisa dell’ineguaglianza, accanto a quella della povertà, comincia a sconcertarci, la sua resta una fotografia parziale. Anzi, non comunica nulla sulla natura della nostra responsabilità e quindi nulla su quello che si deve e si può fare per far cessare il muto dolore di tanti uomini e di tante donne. Infatti, esprime semplicemente che “noi” siamo molto ricchi e che “loro” sono molto poveri. Questo, però, è del tutto compatibile con razionalizzazioni, più o meno in buona fede, utili per guardare senza problemi di coscienza alla più grande tragedia della storia umana. Proviamo a elencarne alcune, sperando di cogliere almeno alcuni aspetti di come il cittadino occidentale medio, o anche l’accademico medio, pensa alla povertà nel mondo. Una prima, facile razionalizzazione ci rassicura che non abbiamo responsabilità dirette per una povertà così grave, anche se forse potremmo fare qualcosa di più, potremmo rinunciare a qualcosa per aiutare le sorti dei nostri simili lontani. Potremmo, anche se non c’è alcun obbligo diretto a farlo. Una seconda razionalizzazione, un po’ più sofisticata, e più cinica, assimila il nostro contributo alla riduzione della povertà del mondo al cadere di una goccia nel deserto. Anche ammesso che i nostri sforzi generino un minimo beneficio, essi non intaccano il problema alla radice e finiscono per essere una serie di insensate fatiche di Sisifo. C’è qualcosa di intrinsecamente scoraggiante nel donare denaro e continuare a vedere in tv immagini che dimostrano come la povertà più nera resta sempre lì, e addirittura aumenta. Una terza razionalizzazione, questa certamente più sofisticata in quanto proposta da economisti senior ed emergenti, come Dambisa Moyo, sostiene che gli aiuti non siano inefficaci, quanto dannosi: creano dipendenza, sono fonte di corruzione, inefficienza e dipendenza, non spingono i poveri e i loro governi a trovare formule economicamente sostenibili per uno sviluppo durevole. Infine, una quarta razionalizzazione, che riprende intuizioni presenti nelle tre precedenti, identifica soprattutto se non esclusivamente nella corruzione e nell’inefficienza dei governi del Paesi poveri la causa della povertà estrema. La condizione miserabile in cui vivono i poveri della Terra non è certamente colpa loro, ma dei loro governanti, spesso corrotti e violenti. In ogni caso, non è colpa nostra. Anzi – e qui avviene la sintesi con le razionalizzazioni precedenti – se quel poco che possiamo donare per alleviare una povertà enorme passa, come è inevitabile, per le mani di governanti corrotti e violenti, nella migliore delle ipotesi i nostri aiuti saranno gocce nel deserto ancor più piccole e rare di quanto credessimo e, nella peggiore, serviranno solo a rafforzare le élite corrotte al potere e quindi a rinsaldare la condizione di degrado in cui versano le popolazioni sottomesse. Osando un’analisi di psicologia sociale, possiamo affermare che la stragrande maggioranza dei cittadini medi occidentali pensa alla povertà proprio in questi termini.
In un libro che ho tradotto e curato qualche anno fa (Povertà mondiale e diritti umani. Responsabilità e riforme cosmopolite, Laterza, Roma-Bari, 2010) l’autore, Thomas Pogge, aveva l’ambizione di mettere a soqquadro tali utili riconciliazioni, pur riconoscendo l’importanza di quei fattori locali su cui a noi fa comodo insistere. La finalità di tale spietata eziologia non era quella di farci sentire tutti peggio svelando responsabilità ben più ampie di una insufficiente generosità, quanto quella di svelare cosa dovevamo, e quindi potevamo fare – ultra posse nemo obligatur – per contribuire a sradicare la povertà. Una delle tesi più interessanti (e controverse) di Pogge era che a bendere il problema della povertà può essere risolto facilmente e che per risolverlo nessuno deve fare voto di povertà. Non ci veniva chiesto di diventare tutti poveri per salvare i molto poveri. Al contrario, si diceva che occorre un piccolo sforzo economico da parte di ciascuno di noi, e un grande sforzo di chiarificazione intellettuale che faccia da premessa per tre azioni congiunte: a) mettere da parte una volta per tutte gli alibi riconciliativi, b) muovere il primo passo per costruire una coscienza civile globale, c) fare pressione su governi e istituzioni affinché siano adottate alcune minime riforme dell’ordine globale capaci di scardinare i meccanismi che oggi generano povertà e miseria e di cui siamo direttamente responsabili nella misura in cui non facciamo nulla per rimuoverli. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani compie settantatré anni. Ha un’età tale da meritare un trattamento da persone adulte, senza facili scappatoie.
Il prof. Luigi Caranti