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Intervento di Paolina Mulè e Alessio Annino, docenti del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Catania, in occasione della Giornata internazionale della Tolleranza
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con le delibere nn. 47/124 del 18 dicembre 1992 e 48/126 del 20 dicembre 1993 e 49/213 del 23 dicembre 1994, ha proclamato e sostenuto l’Anno delle Nazioni Unite per la Tolleranza.
Nell’ambito del panorama pedagogico e didattico, misurarsi con la categoria della tolleranza, che deriva dal latino tolerantia, toleràre che significa sopportare, sollevare, rimanda ad un lavoro di analisi che guarda al soggetto-persona e agli orizzonti antropologici, culturali e linguistici in cui il soggetto cresce, si sviluppa, si forma. Poiché l’alterità per definizione è ciò che è altro da me, a fronte di potenziali slittamenti semantici, come tolleranza non si deve intendere in questa sede una concessione bonaria, paternalistica, di un qualche spazio, bensì un pieno riconoscimento delle individualità.
Le questioni relative all’educazione interculturale e all’educazione alla differenza e, quindi, all’inclusione si situano all’interno di questa dialettica, e s’impongono all’attenzione del pedagogista, dell’assistente sociale, del politico, dei docenti nel contesto scuola, della stessa società che vive nel e del confronto con l’alterità, come luogo in cui affiorano posizioni contrapposte, ora di apertura culturale e politica, ora di arroccamento su fondamentalismi, dogmatismi e impliciti culturali.
La ricostruzione storica di una dialettica che oscilla tra identità e diversità, tra soggettività ed alterità, pone in evidenza non solo gli eventi, i fenomeni e i processi ad essa interrelati ma anche, e soprattutto, l’affermazione di una modalità ideologica di intendere, vivere e rappresentare il problema antropologico della diversità, sottolineando altresì l’esistenza di una razionalità totalizzante, unitaria, dogmatica, fondata sui princìpi quali l’ordine, l’unità, la norma. In ragione di ciò, la fenomenologia del razzismo si accompagnerà così a modelli di elaborazione e diffusione quale la paura per lo straniero e per la perdita di identità, da cui avranno origine misure di controllo sociale che sconfineranno nell’epurazione e nello sterminio.
Gli eventi sociali, politici, culturali del secondo Novecento del secolo scorso, però, impongono significativamente il bisogno di educare alla differenza per valorizzarla, per promuoverla come elemento di ricchezza che faccia leva sulla logica della curiosità e dell’incontro, portando all’attenzione di molti soggetti istituzionali e dei cives chiamati a partecipare dell’alterità riconosciuta, la prospettiva dell’educazione all’inclusione come ipotesi di fondazione di una Bildung per la pacifica convivenza, per la cooperazione, per la democrazia. A fronte del riconoscimento del plurale, del molteplice, salvaguardando l’unicità e l’irripetibilità di ciascuno, si è andata delineando la consapevolezza della categoria della differenza non come categoria della normalità ma come condizione esistenziale che caratterizza ciascun soggetto-persona. Un tale ethos si fonda sul presupposto che soggetti-persona e gruppi umani, considerati nella loro unicità, hanno il diritto di acquisire visibilità sociale e peso specifico in sede politica, e che occorre superare la logica perversa del gioco centro-margine, quel gioco che ha permesso la cancellazione, la segregazione, la negazione. Rispetto a questo orizzonte culturale, l’educazione alla differenza e, quindi, all’inclusione si pone come scelta ineludibile.
La prossimità non è riduzione della differenza e costruzione di identità al plurale; piuttosto è scoperta della ricchezza antropologica dell’alterità; è costruzione di orizzonte di co-implicazione e di autentica comprensione. Facile e spontaneo è il percorso che porta all’innalzamento dei muri tra i Noi e i Loro, quando non vi sia una tensione culturale all’emancipazione, che comporta, tra le altre cose, la visione dell’alterità come fonte di confronto; in alcune occasioni è molto più facile allontanare, escludere, rifiutare. Da qui emerge con prepotenza il ruolo nevralgico della scuola e delle fondamentali agenzie della formazione, su tale questione.
La scuola, infatti, può e deve diventare luogo in cui si sperimentano il pluralismo, la pacifica convivenza, la democrazia, l’inclusione a condizione che questa istituzione fuoriesca dal modello istituzionale, culturale e pedagogico monotematico, monolinguistico, etnocentrico e monoculturale. Il pianeta-scuola, soprattutto per quanto riguarda una realtà sociale e culturale come l’Italia contemporanea, in un certo senso vive di contraddizioni continue e di speranze profondissime che si trascinano da decenni, alimentando un paradosso che quotidianamente favorisce la coesistenza di istanze innovatrici, realmente tese allo scambio reciproco, nonché di resistenze etnocentriche quasi ancestrali, legate culturalmente a schemi di netto rifiuto e di completo ostracismo nei confronti di tutto ciò che è nuovo, quindi diverso. In una riflessione pedagogica serrata e continua, l’articolazione appartenenza-consapevolezza-responsabilità-partecipazione diviene essenziale per i processi inclusivi e per la vita democratica di una comunità, e in un’analisi radicale e profonda dei contesti sociali e culturali, essa permette di fissare come obiettivo teleologico quello di ritrovare un proprio baricentro di significato in una liberazione da pregiudizi, schemi sedimentati e modelli.
Partendo dalla base dell’appartenenza etica, passo dopo passo si acquisisce e si sviluppa la responsabilità, per maturare una piena partecipazione civica, e nello stesso tempo emerge la tensione alla ripresa di un dialogo vigoroso per attuare una sistematica affrancazione della cultura, e da una certa cultura gestita ed assorbita passivamente, per affidarle un compito di riformulazione della stessa vita sociale, e avvicinare le aspettative ai bisogni più radicali e contingenti dei soggetti. In questo modo il modello dell’educazione inclusiva diventa la via possibile per determinare il cambiamento di prospettiva nei confronti dei soggetti altri e diversi.
Tale modello prevede procedure complesse, basate via via sull’interazione dei consociati da un lato, e sulle scelte politiche e culturali dall’altro, ed il tutto è concatenato in una serie di comportamenti ed orientamenti educativi e formativi che comportano capacita di lettura critica e consapevolezza dell’appartenenza etica al territorio e della propria identità. In sintesi, ponendosi come centro della formazione alla libera investigazione, al dialogo, al confronto, alla partecipazione, alla co-implicazione, alla valorizzazione della differenza, la scuola può fare emergere e sentire vivi i valori della persona, dell’alterità, della diversità, della pluralità, dell’intersoggettività. In questo modello aperto alla pluralità dei soggetti-persona, dei linguaggi, dei saperi, dei sistemi di rappresentazione sociale, esercita una funzione di primo piano l’attenzione per un pensiero creativo, divergente e dunque lo stesso problema della conoscenza, da non pensarsi in termini di trasmissione culturale ma di autonoma costruzione di modelli conoscitivi.
Ne consegue che il modello dell’ educazione inclusiva, riferendola ad un processo volto a tutelare il diritto all'istruzione per tutti, indipendentemente dalla diversità di ogni individuo dovuta a disabilità e/o svantaggi psicologici, sociali, economici e culturali, permette alle scuole di creare le condizioni affinché tutti possano sentirsi accolti, in modo tale che ciascuno possa apprendere e partecipare alla vita scolastica e trattare la diversità come parte della normalità, non solo a scuola ma anche nella vita sociale, culturale e professionale. L’educazione inclusiva diventa, quindi, una lotta contro la segregazione, perché quello che è in gioco non è che le persone diverse imparino più o meno stando tra i coetanei, ma che la scuola debba concedere un altro modello educativo dove tutti imparino unitamente a coesistere.
É quindi un’educazione interculturale ed inclusiva che sia capace di educare ad una cittadinanza rapportata con la diversità, che comprenda, difenda e promuova le differenze umane come valore e diritto, e al tempo stesso che sviluppi la convivenza democratica fra le diverse culture dell’aula. L’educazione e la cultura sono gli unici strumenti che possano umanizzare l’essere umano e solo così si potrà produrre progresso umano e civile. In ragione di ciò, nella scuola dell’autonomia ciò è possibile, a patto che si ripensi il profilo culturale e professionale del dirigente scolastico e del docente attraverso un autentico patto formativo tra le due figure, che faccia riacquistare al dirigente scolastico una specifica leadership educativa e all’insegnante una formazione basata su un chiaro equilibrio tra la didattica, la cultura e la governance.
La scuola dell’autonomia deve, quindi, ristabilire il corretto equilibrio tra la governance, la didattica e il progetto culturale per costruire una scuola inclusiva che possa essere al tempo stesso espressione di una scuola democratica, equa, giusta ed efficace, che offra ad ogni studente la possibilità di sviluppare le sue potenzialità inespresse e, nel contempo, una scuola che riesca a valutare e ad orientare i talenti di ogni studente e il merito, inteso come espressione di una responsabile confronto non esageratamente competitivo tra le diversità che si sviluppano nella eterogeneità della classe. Urge quindi una nuova didattica che deve trovare un bilanciamento tra i contenuti, i metodi e il digitale e deve chiarire il senso dell’inclusione.
I docenti Paolina Mulè e Alessio Annino