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Il presidente di Officine Culturali Francesco Mannino ricorda il responsabile dell'Ufficio Tecnico dell’Università, scomparso pochi giorni fa. Leonardi ha pianificato il recupero e la rifunzionalizzazione del Monastero dei Benedettini, insieme all’architetto Giancarlo De Carlo
Nino Leonardi era geometra, un tecnico che amava l’architettura e soprattutto l’ingegno. Nella sua vita aveva incontrato alcune persone che ne avevano profondamente influenzato il corso, ed in particolare Giuseppe Giarrizzo, “il Signor Preside”, e Giancarlo De Carlo, “il Professore”. Con loro, dopo una intensa esperienza nell’Ufficio Tecnico dell’Università di Catania, aveva intrapreso la “straordinaria avventura” del Monastero, che per Giarrizzo era “la più straordinaria” della sua vita. Della loro vita.
Alla fine degli anni ‘60 del Novecento il Monastero dei Benedettini versava in condizioni disastrose, dopo circa un secolo di usi civili, che Nino Leonardi in più occasioni definì piuttosto “in-civili”: latrine nei corridoi che scaricavano nei cortili meno visibili, muri divisori, colonne, fontane e marmi divelti o deturpati, ma soprattutto superfetazioni ovunque, per un totale (eliminato in seguito con i lavori di recupero dell’Università) di circa 10.000 m3. Dal sindaco Magrì fino al Rettore Rodolico, dal Ministro della Difesa Giovanni Spadolini, autore del trasferimento in altra sede della caserma lì ospitata, al Direttore Regionale dei Beni Culturali e Ambientali, Alberto Bombace e con una convinzione crescente di Giuseppe Giarrizzo, preside della Facoltà di Lettere in cerca di una nuova sede, pensieri e risorse cominciarono a convergere sul Monastero, che mostrava sì segni preoccupanti di difficoltà incombenti per il suo recupero, ma solleticava la visione di una città con un grande polmone culturale al suo centro, capace di assorbire le energie del territorio ospite e di restituirgli risorse intellettuali, culturali e progettuali. Era la teoria del “Polo Umanistico” al centro storico, che non fu risparmiata negli anni seguenti da critiche e opposizioni, soprattutto per la gentrificazione che inevitabilmente la presenza universitaria produce nelle aree urbane dove viene ospitata.
Il 13 aprile 1977 il Comune di Catania donò all’Università l’edificio, ad esclusione della chiesa e delle Biblioteche Riunite “Civica e Ursino Recupero”. L’Ateneo – dopo aver avviato i primi lavori di messa in sicurezza e di svuotamento delle superfetazioni – decise di affidare il progetto all’architetto e professore Giancarlo De Carlo, dando il via a quel lungo e virtuoso cantiere che non fu solo edile, ma tanto e soprattutto intellettuale e visionario. Quel cantiere animato costantemente dal responsabile dell’Ufficio Tecnico Sezione Benedettini, Geometra Antonino Leonardi, dal preside Professore Giuseppe Giarrizzo, dal professore Architetto Giancarlo De Carlo e dallo studioso Professore Vito Librando. E da circa 600 imprese, 124 professionisti, centinaia e più maestranze, centinaia di appalti. Un brulicare di saperi che, ispirati dal Progetto Guida “Un Progetto per Catania” firmato da De Carlo e Giarrizzo, e condotti dalla supervisione dell’Architetto e sotto il sapiente e accorto controllo del Geometra, stavano strappando l’edificio all’incuria; non solo riportandolo al “pristino splendore” (come avrebbe voluto il sindaco Magrì) ma consegnandolo alle nuove funzioni, trasformandolo in quello che De Carlo definì, poco prima di scomparire nel 2005, uno «spazio tridimensionale abitato, [che] ha acquistato i segni di un luogo di giovani che sciamano da un punto all’altro dei suoi itinerari: di luogo di aria, di luce, di intensa comunicazione, di aspettative e promesse per il futuro». Un luogo deputato alla ricerca, allo studio, alla didattica e alla “comunicazione sociale della ricerca scientifica” che Giarrizzo, De Carlo e Leonardi volevano avvenisse nei cortili, nei giardini, negli auditorium, nel museo e nelle biblioteche del Monastero. Una dialettica tra teoria e prassi dove la prima traesse linfa dal territorio, dalla città, dalle comunità, dalle abitudini, dalle identità, dalle memorie, dai conflitti, per restituire con la seconda al territorio idee, processi sociali, progetti culturali. Una visione che che anticipava di decenni la cosiddetta Terza Missione dell’Università, finalizzata alla restituzione verso le comunità di riferimento di quel capitale culturale e sociale che l’Università sa e può produrre. Una visione che si fece realtà ed esperimento nel Monastero aperto alla città.
Una visione che Nino Leonardi amava più di qualsiasi altra cosa, tanto da portarlo, poco prima della pensione, a scommettere la sua vita professionale sul completamento del Museo della Fabbrica dei Benedettini, collocato negli ambienti delle antiche cucine e inaugurato nel dicembre del 2002, pensato per accogliere migliaia di visitatori e accompagnarli nel viaggio dell’ingegno dell’uomo nel difendersi dalla Natura spietata delle inarrestabili colate laviche e dei devastanti terremoti, proponendo soluzioni costruttive ancora capaci di insegnare e di raccontare quelle storie secolari. E, instancabile, Leonardi non si fermò neanche dopo la pensione, continuando a costruire ed arricchire quell’Archivio del Museo della Fabbrica che raccoglieva tutti i documenti relativi al grande cantiere dei Benedettini, ma anche altri documenti che al Monastero afferivano, permettendo di raccontarne altre storie e di comprenderne il complicato palinsesto.
Un Museo e un Archivio che per Leonardi dovevano essere vivi, comprensibili e affollati: per questo nel 2010, conosciuta la nascente esperienza di Officine Culturali decise di dare il proprio contributo prima come formatore, poi come socio e maestro. Nino Leonardi ha continuato imperterrito a seguire la crescita del progetto di accessibilità e fruizione ampia del Monastero che l’Università di Catania ha condotto in collaborazione con Officine Culturali, proponendosi come interlocutore di decine di studenti universitari, dottorandi e studiosi in cerca di informazioni e testimonianze sul Monastero e sulla città, ma anche come accompagnatore ed esperto suggeritore dei ragazzi delle scuole, seguendoli nei percorsi di alternanza scuola-lavoro. Era interessato ad osservare come funzionava “la macchina” che il progetto con De Carlo e Giarrizzo aveva messo in piedi; curioso di comprendere come il “software” del patrimonio culturale godesse del “hardware” strutturato in 30 anni di cantiere, prendendo da esso conoscenza e restituendogli centinaia di migliaia di amatori, cultori, utilizzatori. Insomma, aumentando le possibilità di una sua tutela consapevole nel futuro. Non di rado era preoccupato, Leonardi: temeva che il calo di interesse potesse riportare ad usi “in-civili” e vanificare il lavoro di tanti anni. Spesso scriveva su “La Sicilia” manifestando questa preoccupazione. E discuteva con convinzione con il singolo cittadino, con l’attivista del Comitato di quartiere così come con il decisore pubblico, che fosse un Direttore, un Rettore o un Sindaco.
Ma amava soprattutto farsi portatore di memoria, Nino Leonardi. Riteneva che il trasferimento dei saperi e delle competenze, del conosciuto e delle curiosità, servisse ad arricchire che lo riceveva e stimolarlo all’azione, al progetto e alla tutela. Molti lo ricollegano alla cosiddetta Sala Rossa, il grande solaio in acciaio che sostiene il pavimento dell’Antirefettorio, visibile durante le visite al sottostante Museo: un luogo “contemporaneo” che lui ha certamente contribuito a far nascere, e che amava vedere riempito di ragazzi in visita, di bambini durante i laboratori, di pubblico durante uno spettacolo teatrale. Perchè in quel momento, quando il tempo incontrava lo spazio nell’atto educativo e comunicativo, Leonardi smetteva di preoccuparsi per il futuro e sorrideva, fiducioso di stare consegnando il proprio lavoro nelle mani di chi ne avrebbe fatto un buon utilizzo. E noi così ce lo ricorderemo, arrabbiato e poi fiducioso, e poi ancora arrabbiato ma anche divertito. Come un amico, come un maestro.