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Proseguono le ricerche archeologiche della missione italo-azerbaigiana nella provincia di Ağstafa. Riportati alla luce reperti degli insediamenti risalenti al periodo tra il X e VIII secolo a.C.
Le testimonianze delle comunità transumanti del Caucaso meridionale risalenti al periodo tra il X e VIII secolo a.C. ritornano alla luce grazie alle ricerche archeologiche della missione italo-azerbaigiana nella provincia di Ağstafa, in Azerbaigian nord-occidentale.
Una missione – nel sito di Tava Tepe, che si estende per quasi due ettari a pochi chilometri ad ovest del fiume Kura – avviata lo scorso anno e finanziata dal Ministero degli affari Esterni e della Cooperazione Internazionale, dall’Università di Catania e dal Center for Ancient Mediterranean and Near Eastern Studies.
Così tra un çay (tipica bevanda tradizionale dell'Azerbaigian) al profumo di bergamotto ed un boccone di lavash (la tradizionale piadina già menzionata nel XII secolo dal saggio Nizami Ganjavi), il team guidato da Nicola Laneri, docente di Archeologia del Vicino Oriente dell’Università di Catania, e da Baktiyar Jalilov, archeologo dell’Azerbaijan National Academy of Sciences, riporta alla luce ogni giorno un frammento della storia dimenticata del Caucaso meridionale.
Già durante la scorsa stagione di scavo gli archeologi, tra i quali alcuni studenti dell’ateneo catanese, avevano rinvenuto, analizzato e catalogato un’impressionante quantità di ceramica associata ad alcune abitazioni parzialmente infossate e con alzato in canne intrecciate e terra battuta, resti di una fase attribuita ai “nomadi guerrieri” che qui transitavano tra l’Età del Bronzo Tardo e quella del Ferro Antico.
Un reperto ritrovato nel corso degli scavi
«Analisi radiometriche hanno fornito nuove datazioni, che collocano gli strati insediativi esposti dagli archeologi in un periodo compreso tra il X e VIII secolo a.C., facendo del sito il primo con strutture abitative risalenti a questa fase in Azerbaijan occidentale – spiega il prof. Nicola Laneri -. Le comunità transumanti che vi avrebbero trascorso i freddi mesi invernali, appartenenti ad una cultura denominata “Khojali-Gedebey”, hanno lasciato testimonianza della loro memoria nella tradizione di costruire tumuli funerari, all’interno dei quali erano notevoli tesoretti bronzei con armi e cinture sapientemente decorate, insieme, talvolta, ai resti di carri e dei cavalli che gli erano stati compagni nei lunghi viaggi in vita».
«Le nuove indagini, a cui hanno dato un prezioso contributo gli studenti della Scuola Interateneo di Specializzazione in beni archeologici degli atenei L’Orientale di Napoli e di Salerno e del dottorato in Archeologia dell’Università “La Sapienza” di Roma, hanno fornito di recente nuovi e importanti dati sulle tradizioni insediative e produttive, grazie al rinvenimento di un’ampia capanna alla quale erano associati macine, pestelli, fornaci, grandi pithoi infossati per lo stoccaggio alimentare e fornaci nell’area esterna immediatamente adiacente alla struttura -aggiunge il docente dell’ateneo catanese -. L’assenza di materiali di pregio, come il bronzo e il ferro, che in questa fase inizia a rimpiazzare il primo, unitamente al numero limitato di forme ceramiche intere e al denso strato di cenere associato ai rinvenimenti, testimonierebbero che la capanna sia stata data alle fiamme prima del suo abbandono, un rituale dal profondo impatto emotivo, che è attestato anche nelle tradizioni funerarie dell’area».
Un momento dell'attività di ricerca