Sito non più aggiornato
Il sito del nuovo organo ufficiale d'informazione d'ateneo è accessibile all'indirizzo www.unictmagazine.unict.it
Il sito del nuovo organo ufficiale d'informazione d'ateneo è accessibile all'indirizzo www.unictmagazine.unict.it
Istituita nel 2007 dall’Assemblea generale dell’Onu, si celebra il 20 febbraio. L’intervento della prof.ssa Rita Palidda, già ordinario di Sociologia economica nel Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Catania e oggi professore a contratto presso la stessa struttura
La Giornata mondiale della giustizia sociale, celebrata annualmente il 20 febbraio, è stata istituita il 26 novembre 2007 dall’Assemblea Generale dell'ONU e il 10 giugno 2008 l’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) l’ha adottata con l'obiettivo di garantire a tutti un lavoro produttivo e dignitoso, in condizioni di libertà, uguaglianza e sicurezza.
Il messaggio delle Nazioni Unite è che la pace e lo sviluppo si perseguono lavorando per la giustizia sociale e per rimuovere le barriere che le persone sono costrette ad affrontare quotidianamente a causa della razza, dell'appartenenza di genere, dell’età, della religione, della disabilità o dell’orientamento sessuale, tematiche entrate a far parte dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.
In un mondo attraversato da guerre sanguinose, da stridenti disuguaglianze economiche e culturali interne e internazionali, da discriminazioni e violenze, dalla sistematica depredazione delle risorse naturali e da crisi lunghe e ricorrenti, la celebrazione della giustizia sociale rischia di suonare oggi come un mero esercizio retorico, cui non credono né i popoli, né i loro governanti. Vale la pena allora di interrogarsi sul nesso tra giustizia sociale e benessere e di chiedersi se è vero che uno sviluppo duraturo sia necessariamente connesso all'equità sociale.
La giustizia sociale come la intendiamo oggi è un concetto multidimensionale e processuale, figlio di due grandi fenomeni che hanno caratterizzato il processo di modernizzazione occidentale: la rivoluzione francese e la rivoluzione industriale. La prima con la triade liberté, fraternité, egalité introduce il principio della legittimazione dal basso del potere e pone le basi per i diritti di cittadinanza (civili, politici e sociali) che diventano fondativi di tutte le moderne costituzioni. La seconda, combinando innovazione tecnologica e affermazione del mercato come modalità di produzione e distribuzione di beni e servizi, porta a un'enorme crescita della ricchezza disponibile e delle possibilità di consumo.
I due fenomeni sono interdipendenti: basti pensare che per funzionare le economie industriali di mercato hanno bisogno di un flusso imponente di forza lavoro formalmente libera dai vincoli giuridici di stampo feudale, di un assetto politico amministrativo e normativo sottratto all'arbitrio di uno stato patrimoniale, di un sistema finanziario e di gestione aziendale che garantisca investimenti e controllo del rischio di impresa.
A sua volta, la ricchezza prodotta dall'economia assicura le risorse per un flusso adeguato di fattori di produzione (macchine, lavoro e materie prime) e alimenta la competizione che porta a una crescita incessante della produttività e dei profitti. Eppure tra diritti di cittadinanza ed economie di mercato i rapporti non sono affatto pacifici e sono stati necessari decenni di lotte anche sanguinose per affermare le libertà personali, la partecipazione democratica, il diritto alla tutela dei lavoratori e delle loro famiglie. Allo stesso tempo, la crescita dell'economia di mercato e le sue crisi ricorrenti hanno evidenziato i deficit di iniziativa privata nella fornitura di beni e servizi collettivi (dalle infrastrutture, all'istruzione, alla sanità, alla previdenza), indispensabili per far funzionare l'economia, limitare gli effetti perversi della concorrenza e la conflittualità sociale.
Il dispositivo istituzionale che ha permesso un compromesso sostenibile tra etica ed economia, interessi sociali e logiche economiche è il sistema di welfare, vale a dire l'insieme di politiche pubbliche tramite le quali lo stato fornisce ai propri cittadini protezione contro i rischi e bisogni prestabiliti, introducendo specifici diritti sociali, nonché doveri di contribuzione. Il cardine per il funzionamento dei sistemi di welfare è la tassazione progressiva e la redistribuzione basata su criteri di solidarietà orizzontale e verticale, che non derivano, tuttavia, da imperativi di tipo morale o religioso e non sono sottrazioni indebite di risorse a chi ha la fortuna di essere ricco o la capacità di diventarlo.
Tassazione progressiva e redistribuzione traggono la loro legittimazione da due considerazioni.
La prima è che la ricchezza è prodotta socialmente e la sua destinazione non può essere lasciata esclusivamente agli interessi e alle decisioni di singoli detentori. Nessuno fa soldi se non c'è qualcuno che lavora per lui o se non c'è qualcuno che attribuisce valore a un certo bene. A pensare che la ricchezza in definitiva venga da chi lavora non era solo Marx, ma prima di lui Smith che è passato impropriamente alla storia come il teorico del laissez faire, vale a dire del capitalismo liberale.
La seconda ragione è che gli interessi individuali non coincidono con gli interessi collettivi e le logiche di profitto dei singoli tendono a un utilizzo sub ottimale dei fattori di produzione (capitale e lavoro) e a una sottodotazione dei beni collettivi necessari a tutti, produttori, venditori e lavoratori.
Ciò non significa che i sistemi di welfare non abbiano prodotto effetti perversi in termini di eccesso di spesa e regolamentazione pubblica, ma oggi non conosciamo un modo diverso di affrontare il dilemma tra ricchezza e libertà, tra bene pubblico e interessi privati, poiché l'utopia della pianificazione socialista ha largamente fallito sia sul piano della produzione della ricchezza, sia su quello dell'uguaglianza tra i cittadini.
Garantire la giustizia sociale, vale a dire garantire a tutti l'accesso alle risorse socialmente significative, un lavoro e un reddito adeguato, il rispetto e la considerazione sociale e un accesso universalistico ai servizi essenziali, è un obiettivo intrinsecamente connesso al modello di società che abbiamo costruito e in cui ancora crediamo. Si tratta di un modello che ha in sé un potenziale di inclusività che ha prodotto negli anni l'apertura a nuovi diritti e a nuovi soggetti di diritto.
I diritti dell'uomo e del cittadino proclamati dalla rivoluzione francese erano in realtà riservati solo al cittadino maschio e proprietario e Olimpe de Gouges che li aveva rivendicati per le donne fu decapitata da Robespierre. Anni di lotte ne hanno aperto l'accesso a persone di condizione sociale diversa, alle donne e ai non cittadini, vale a dire ai migranti, ai diversi per orientamento sessuale e abilità psico-fisiche: un percorso irto di difficoltà e niente affatto concluso, ma la cui legittimità può essere rivendicata alla luce del sole. Ciò, anche se non va dimenticato che inversioni di tendenza e rigurgiti oscurantisti sono sempre possibili, come mostra la terribile vicenda della Shoah, la scia di sangue che attraversa il pur imponente cammino di parità delle donne, il razzismo e le discriminazioni sessuali.
Il modello sociale in cui viviamo è gravido di contraddizioni e di rischi di derive autodistruttive, ma ha ancora in sé gli anticorpi per contrastarli. La lunga crisi iniziata nel 2008 ha mostrato le conseguenze distruttive del turbocapitalismo, della finanziarizzazione dell'economia, del consumismo, ma il ricorso al tanto vituperato intervento pubblico è stata la ricetta più efficace per frenare la crisi. Oggi la pandemia mette in evidenza come gli allarmi che da anni sentiamo sulla distruzione ambientale erano più che giustificati e come la tutela dell'ambiente, la diffusione internazionale delle conoscenze scientifiche e una rete solida di servizi sanitari accessibili a tutti siano gli unici strumenti per combatterla.
Siamo oggi forse nelle condizioni di operare una rivoluzione culturale che ancori le trasformazioni della società in cui viviamo su tre pilastri: il primo è acquisire la coscienza del limite, che implica un ridimensionamento della corsa ai consumi e alla distruzione dell'ambiente, il secondo è assumere che l'equità sociale, il rispetto per le persone e i loro diritti politici e sociali sono obiettivi indispensabili non solo per tenere a freno conflitti e violenze, ma anche per salvare il capitalismo dalle conseguenze negative della corsa all'accaparramento e alle speculazioni, che lasciano inutilizzate intelligenze, energie e risorse umane ed economiche; il terzo è che il benessere collettivo non va considerato un'utopia caritatevole, ma il risultato di un processo che coniughi ricchezza e libertà, dia agli individui la possibilità di avere un reddito e di godere di un tenore di vita dignitoso, ma allo stesso tempo garantisca loro la libertà di mettere in atto stili di vita alternativi e di far valere il proprio merito e la propria capacità di lavoro.
Lo Stato non deve rinunciare, nemmeno in tempi di crisi, al ruolo di supporto garantendo istruzione pubblica, cure sanitarie, reti di sicurezza sociale, buone politiche macroeconomiche, salvaguardando la concorrenza di impresa e assicurando la sostenibilità epidemiologica e ambientale. Sarebbe un errore pensare che la libertà dell'individuo si opponga alla società.
Occorre, tuttavia, tener presente che il benessere collettivo e la sostenibilità sociale e ambientale della crescita economica non possono essere delegate a un mitico e immarcescibile welfare, che mostra da anni difficoltà crescenti, ma sono responsabilità anche degli imprenditori e dei singoli individui. Agli uni tocca l'onere di perseguire profitti attraverso l'innovazione e la capacità di sfidare i mercati, senza venir meno alla responsabilità sociale nei confronti dei propri dipendenti e della collettività; agli altri l'impegno a coniugare diritti e doveri, a partecipare responsabilmente alla gestione democratica della cosa pubblica, dando la propria fiducia a leader che rappresentino le istanze più avanzate della società e se ne facciano carico con capacità ed onestà.
Uno dei fattori di crisi più grave della nostra società riguarda proprio il ruolo delle élites come soggetti in grado di mobilitare la capacità di lavoro dei cittadini, la loro cooperazione e la loro lealtà nei confronti dello stato e della collettività.
La corruzione, l'uso del potere a fini particolaristici, il fare appello agli egoismi e all'aggressività delle masse come strumenti di legittimazione del proprio ruolo sono delitti più gravi del furto e della violenza privata, perché colpiscono la società tutta e inaridiscono la fiducia dei cittadini. È' tempo che i cittadini e le loro élites scoprano la grandezza e la nobiltà della politica come cura del benessere collettivo, che imparino a valutare le azioni umane, private o pubbliche che siano, non in termini strettamente utilitaristici, ma perseguendo quell’ideale più ampio di “fioritura umana” di cui parlava già Aristotele.
Prof.ssa Rita Palidda, già ordinario di Sociologia economica nel Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Catania e oggi professore a contratto presso la stessa struttura