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La poesia

Intervento del prof. Felice Rappazzo, già docente di Letteratura italiana contemporanea dell’Università di Catania, in occasione della Giornata Mondiale della Poesia, istituita dall’Unesco nel 1999, che si celebra il 21 marzo

19 Marzo 2021
Felice Rappazzo

Ad alcuni piace la poesia

Ad alcuni –

Cioè non a tutti.

E neppure alla maggioranza, cioè alla minoranza.

Senza contare le scuole, dov’è un obbligo,

e i poeti stessi,

ce ne saranno forse due su mille.

Piace –

Ma piace anche la pasta in brodo,

piacciono i complimenti e il colore azzurro,

piace una vecchia sciarpa,

piace averla vinta,

piace accarezzare un cane.

La poesia –

Ma cos’è mai la poesia?

Più d’una risposta incerta

È stata già data in proposito.

Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo

Come all’ancora d’ un corrimano.

                                                                                                          (Wisława Szymborska)

Della poesia si è voluto sottolineare, soprattutto in età moderna (dal romanticismo fino al surrealismo e alle esperienze che lo hanno seguito) l’aspetto di divina mania, ossia di irrazionalità, sregolatezza, estasi fulminante, intuizione pura, oscurità, capacità sapienziale, ineffabilità: tratti e potenzialità che si svilupperebbero al di fuori della discorsività, di una appartenenza al linguaggio e al senso comune. In questa tendenza, che è tanto della critica (anche di quella che i poeti svolgono su se stessi) quanto della percezione diffusa e delle idee correnti, Poesia e Poeta finiscono con l’identificarsi. Non si può negare che, per certi versi e in una certa misura, questa doppia percezione, che tuttavia sfuma spesso nel luogo comune o nel pregiudizio, colga nel segno. Ma bisogna, appunto, definirne confini, misure, quantità, spazi. Diciamo che la dimensione che chiamiamo irrazionale o sublime o ineffabile ne è una componente; ma non necessariamente quella maggiore e più significativa, men che mai quella totalizzante. All’idea di poesia come rinuncia o rifiuto della discorsività e della asseverazione possiamo accostarne – se non contrapporne – un’altra, che del lavoro di scavo, di costruzione paziente, di artigianalità e lavoro sulla lingua, di esigenza comunicativa (che potremmo dire intransitiva, con un ossimoro: perché la poesia afferma, ma non dimostra) fa il suo strumento e il suo obbiettivo. La poesia è, innanzi tutto, poiesis, una modalità creativa del fare e dell’esperire, un lavoro sul linguaggio che comporta l’inciampo e l’incertezza, e non esclude l’attività raziocinante.

Wisława Szymborska (foto di Mariusz Kubik)

La poesia non è solo lirica: in versi leggiamo anche epica e tragedia. Essa è una modalità di scrittura e di espressione che permea modifica e innova i generi letterari. L’equivoco maggiore è proprio quello di identificare tutte le forme di poesia con la lirica, ossia con la soggettività che si fa espressione, assenza di contenuto: quando, invece, anch’ essa cela nella forma proprio una stratificazione di contenuti poi svaniti, com’ebbe a osservare Adorno. Quel che non possiamo rimuovere è che la poesia è versificazione, ossia misura e incolonnamento, verticalità di parole ed enunciati, al contempo logica e ludo, essenzialità e dispersione, rigore e piacere; e si regge su sottili ma robuste trame di parallelismi e richiami (la rima, il ritmo, le assonanze, gli anagrammi…), ma anche solo di allusioni a tali procedure, anche quando esse si presentino (come nel caso delle avanguardie e in genere della poesia moderna) sotto forma di ripulse e negazioni. Queste procedure si ritrovano anche là dove la poesia tende a dissolversi nel verso lungo o nella prosa detta poetica (dal secondo Ottocento, diciamo a partire da Baudelaire). In varie esperienze degli ultimi due secoli questa contaminazione sembra annullare, per l’appunto, gli effetti di verticalità, di parallelismo, di rime e ritmo: ma ci si ritrova sempre, alla fine, davanti a composizioni che di tali elementi sono costituite, seppur in maniera dissimulata. Se la prosa è orizzontalità e dispiegamento lineare, la poesia tende, all’inverso, alla ripetizione e alla compattezza: quasi una forma ossessiva e compulsiva del dire; fatto che rivelava in passato (e oggi invece tende a occultare) la sua natura di discorso eminentemente sociale, con funzione di coagulo, di cerimonia, di riconoscimento interno ai gruppi che la praticavano o ne fruivano. In ciò le due modalità dell’espressione letteraria trovano, di fatto, profonde parentele e altrettanto profonde linee di frattura.  

In qualsiasi forma si presenti (lirica, narrativa, tragica, satira, invettiva), la poesia si rivela processo e azione linguistica e formalizzante nella quale l’intelletto media l’esperienza umana, ne fa emergere tratti, di volta in volta, poco riconoscibili dal pensiero razionale, e soprattutto dal principio di prestazione. Questo significa forse che essa è discorso di opposizione al potere? Certo, anche questo; purché non si dimentichi che essa è stata, nei secoli o nei millenni, anche discorso interno al potere, e che il poeta, come il pittore, lo scultore, il musicista, ha avuto un posto, spesso defilato, nell’organizzazione gerarchica dei potenti, e che poeti e poemi hanno accompagnato eserciti in marcia per conquiste commerciali e coloniali, pur dolendosi spesso anche per gli sconfitti. Tale contraddizione interna ne rivela anche altre: ad esempio, quella fra logica “razionale” e logica dell’inconscio, che non è, come si tenderebbe a pensare, “irrazionale”, ma fondata su propri criteri di logica e cognitività. La poesia si presenta dunque come essenzialmente conflittuale: da qui la sua ricchezza e la sua necessità, da qui, forse, il prestigio che continua ad avere, almeno su un piano cerimoniale, anche entro le società moderne che del principio di efficienza e di prestazione hanno ormai fatto il loro unico criterio di valore, e che onorano, per contrasto, il fascino umbratile della gratuità.

Non ineffabilità, ma lingua, linguaggio, lavoro ed inventiva su lingua e linguaggio, espressione e comunicazione: non può mancare questo dato essenziale nelle riflessioni sulla poesia. Anche i tratti ineffabili (si pensi a quante volte questo motivo ricorra in un poeta che fa del presentarsi rigoroso e quasi arcigno una regola, come Dante; si veda come questi riesca a modulare una gamma pressoché infinita di linguaggi e di nuances) sono in realtà il frutto di un lavoro e di una riflessione interna sulle forme ricevute dell’espressione, e sulla necessità di riutilizzarle alterandole, torcendole: di far ciò creativamente, tuttavia, per dire “altro”, rivelando del mondo latenza e tendenza, secondo una formula di Ernst Bloch. Possiamo chiederci se il linguaggio della poesia sia altra cosa dal linguaggio comune. La risposta è bifida: da una parte, no: la poesia si avvale sempre di una lingua (o di una pluralità di lingue), se vogliamo della “linguisticità” universale, senza rinunciare al senso comune implicito nel codice; dall’altra ne deborda, produce una formidabile eccedenza di senso.

Si pone ora la questione della soggettività del poeta, e anche quella del rapporto fra poesia e lettore. Se si rifiuta l’identificazione della poesia con l’ineffabilità e del poeta con uno strambo portatore di alterità, di invasato, di   inconsapevole naïf, occorrerà riconoscere che egli è sempre investito dei problemi del mondo; (l’esempio di Leopardi, lirico “puro”, che conosce e si duole della sorte dei minatori peruviani, dei pellerossa, è esemplare); ed è sempre un intellettuale. La cui cultura, la cui formazione profonda e vasta non comporta necessariamente una sistematica sequenza di studi e di esperienze “professionali”. La cultura è soprattutto esperienza del mondo, mediata dalla conoscenza, dalla riflessione e dalla passione, dunque anche dai libri e dalle elaborazioni; e da applicazione artigianale. Si provi a segnalare un grande poeta che non sia anche un grande intellettuale. Potrà essere o presentarsi come un esule (ossia un non-integrato), un trasgressore (il poeta maledetto ne è l’esempio più diffuso), un disadattato, un incompreso, un originale, ma rimane un intellettuale; e il suo gesto, l’atto poetico, “creativo”, nasce poi come cosa nuova da tale contesto di esperienze non per miracolo, ma per elaborazione formale di un nuovo modo di percepire la vita e la storia: cosa che non a tutti è data, che non a tutti interessa. La farfalla che esce dal bozzolo ha già vissuto una lunga vita come crisalide.

C’è poi un altro protagonista di questo quadro: il lettore. Non esiste testo senza la sua fruizione e la sua interpretazione, a qualunque livello essa si compia. La poesia è una relazione, come ogni opera di conoscenza, come ogni visione del mondo e della vita. La centralità del soggetto poetante ritrova nel lettore il necessario terzo protagonista, ineludibile, talvolta imprevedibile, di quel mondo che chiamiamo “poesia”.

Nella Giornata Unesco dedicata alla poesia una domanda non può non aleggiare su qualunque discorso, celebrativo o problematico che esso sia: qual è l’utilità, se non la necessità della poesia? Risponderò per punti. In primo luogo: la poesia non cambia il mondo, ma è una delle forze necessarie, o almeno utili, per cambiarlo (in meglio, s’intende). Penso infatti che una quota almeno del prestigio che continua a cingere la poesia, anche da parte di coloro a cui non interessa nulla, consista nel suo corrodere, sottotraccia, i criteri di valore consolidati, il mondo brutale, e sciocco, dei dati di fatto.

Per usare, un po’ impropriamente, un’espressione di Jacques Lacan, nella poesia si rivela il manque à être, una spina, un pungolo che rivela il deficit e bisogno da cui nasce il Desiderio. Il desiderio, non il piacere come consumo di esperienze ed oggetti. Essa è il regno del lavoro in profondità, dell’artigianalità come lentezza e accuratezza: e al mondo della cura, in quanto cura del mondo, essa allude nella sua pienezza formale, e anche nella sua insoddisfatta imperfezione: percepisce dati elementari ed essenziali della vita, li mette in rilievo e li strappa alla routine del quotidiano; rivela talvolta, ad esempio nell’ironia che la pervade, nelle punte aggressive e satiriche che ne emergono, la vacuità del primeggiare, il volto tronfio dei potenti; cura, lentezza, profondità, ironia, ne svelano il profondo spirito gregario che la anima, l’esigenza umana, sociale, dell’operare assieme, del costruire eredità, del distruggere i patrimoni di cultura per ricostruirli. Essa, insomma, è uno strumento che all’umanità è dato per muovere verso «il sogno di una cosa» (l’originario l’autore dell’enunciato non è Pasolini ma il giovane Marx utopista ed erede del giusnaturalismo radicale) che essa già possiede da tempo ma che non ha mai realizzato: il sogno della felicità, del compimento, arricchito e reso vigile, tuttavia, dalla necessità del suo contrario, l’inevitabilità della sconfitta e dell’imperfezione. «Scimus enim quod omnis creatura ingemiscit et parturit usque adhuc», tutta la creazione geme fino ad ora nelle doglie del parto (Epistola ai Romani, 8, 22).

Felice Rappazzo

Felice Rappazzo, già docente di Letteratura italiana contemporanea dell’Università di Catania