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Intervento di Daniela Irrera, associato di Relazioni Internazionali al Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell'Università di Catania e editor in chief della rivista International and Political Studies, edita dalla Odesa National University
La Giornata internazionale del Multilateralismo e della Diplomazia per la Pace, istituita dall’Onu e celebrata il 24 aprile ricorre quest’anno nel pieno della guerra nella martoriata Ucraina. Nonostante le previsioni difficili e sinistre, questa giornata offre l’opportunità di riflettere su quanto il multilateralismo e la diplomazia possono garantire nel sistema delle relazioni internazionali, sui fallimenti del passato e sulle potenzialità e strumenti che risultano ancora utili ed efficienti oggi.
Il sistema multilaterale costruito dalla potenza egemone americana e dai suoi alleati alla fine della Seconda guerra mondiale non poteva cancellare la guerra, strumento sempre a disposizione degli stati per la risoluzione delle controversie, ma certamente ha mirato a limitarne il ricorso solo in ultima istanza. Gli anni successivi alla nascita dell’Onu fino ad oggi, passando attraverso la guerra fredda, sono stati costellati da conflitti, proxy wars e crisi di varia natura, ideologiche, etniche, identitarie. In parallelo, si sono succeduti anche interventi di peacekeeping, regime change e di ricostruzione, la cui natura è altrettanto varia. Gli studi sul minilateralismo hanno dimostrato come, in assenza di accordo multilaterale, spesso siano state le alleanze tra un numero ridotto di Stati a consentire la gestione delle crisi o a garantire forme temporanee di stabilità.
Nel contesto internazionale contemporaneo, l’aggressione militare russa all’Ucraina rappresenta un evento al tempo stesso nuovo e di continuità, caratterizzato da elementi simili ma anche diversi, rispetto a quanto vissuto fino ad ora. Questo rende la pace e la stabilizzazione dell’area un’operazione estremamente complessa.
Le immagini che testimoniano i massacri di civili e le fosse comuni nelle zone più martoriate del paese hanno scioccato l’opinione pubblica mondiale e ricordato crimini e genocidi già compiuti in altri contesti, in tempi relativamente lontani (ex-Jugoslavia, Somalia, Ruanda) e più recenti (Afghanistan, Siria, Yemen). Mentre le trattative diplomatiche vivono fasi alterne, le potenze occidentali si dividono sulla necessità ed opportunità di garantire supporto bellico ed equipaggiamenti all'esercito ucraino.
La situazione di stagnante instabilità in cui versa l’Ucraina si protrae dal 2014, da quando la Russia ha annesso la Crimea e stabilito la sua presenza militare nella regione del Donbass, a difesa delle minoranze russofone. Divisioni e nazionalismi sono stati radicalizzati, in nome del ‘mondo russo’, per giustificare interventi di natura prevalentemente militare. Accanto agli eserciti regolari, in tutta l’area è iniziata una progressiva e massiccia mobilitazione di battaglioni e unità militari private, a difesa di entrambe le parti, della nazione ucraina e dei ribelli filorussi. Alcuni di questi, come il battaglione Azov, sono divenuti visibilmente noti, ampiamente discussi e spesso contestati, ma non si tratta dell’unico caso.
Varie formazioni armate, la cui natura rimane particolarmente ambigua, hanno utilizzato il Donbass come campo di addestramento e rafforzato la propria presenza. Ai confini dell’Europa, milizie private, mercenari alle dipendenze della compagnia russa Wagner, precedentemente attivi in Siria, Sudan e Repubblica Centrafricana, veterani delle guerre cecene, hanno ingrossato le parti militari, fino a diventare parte attiva del conflitto oggi. L’UNHCR e numerose Ong hanno già documentato massicce violazioni dei diritti umani, torture, stupri e pratiche di pulizia etnica, oltre all’evidente utilizzo di mine e di armi non convenzionali.
Tali effetti, resi adesso più evidenti, facevano già parte della vita dei civili costretti ad abbandonare il Donbass poiché accusati di essere leali a Kiev. Accanto alle masse di rifugiati che hanno lasciato il paese, fin dai primi giorni di combattimenti, senza prospettive sul loro futuro, e a quelle che continuano a farlo, attraverso i disperati corridoi umanitari, è necessario ricordare i numerosissimi sfollati interni. Coloro che vivono la condizione di rifugiati senza attraversare un confine internazionale, restando, pertanto, all’interno di un paese in conflitto, risultano spesso poco visibili. A partire dal 2014, migliaia di persone sono state costrette a lasciare gli oblast di Donetsk e Luhansk, occupate dai ribelli filorussi e a trasferirsi in regioni, prima considerate più sicure, come Mariupol, oggi martirizzato centro nevralgico degli interessi russi.
Il Palazzo centrale dell'Università di Catania
La dimensione umanitaria del conflitto e la smilitarizzazione sono due aspetti rilevanti di qualunque situazione post-conflitto e sono intrinsecamente legati. Tutti i conflitti civili contemporanei, che si sono succeduti dalla Guerra Fredda ad oggi, sono stati caratterizzati dalla privatizzazione della violenza, dagli attacchi deliberatamente mirati ai civili e dalla distruzione delle comunità locali. Tali fenomeni, non nuovi, hanno però raggiunto in Ucraina una rappresentazione estrema. Individuare le migliaia di persone che risultano oggi sfollate, in particolare le categorie più vulnerabili, come bambini, donne e anziani, smilitarizzare il paese e riconvertire le comunità ad una vita civile normale sarà un processo lungo e travagliato che richiederà interventi significativi e politicamente costosi.
Nel lungo periodo, però, la diplomazia e le relazioni multilaterali dovranno anche occuparsi di stabilizzare il futuro regime politico ucraino. Il paese è parte della storica zona di influenza russa, che comprende una varietà di regimi ibridi e illiberali, ma anche alleati molto costanti nel tempo (Bielorussia e Kazakistan), ribelli occasionali (Georgia) ed entità ambigue (Kirghizistan, Tagikistan). La difesa del ‘mondo russo’ è stata usata per dominare o controllare le élite politiche locali, giustificare interventi di varia natura e promuovere cambi di regime. L'Ucraina è stata la più costantemente ribelle ed orientata verso l'Occidente. La Rivoluzione Arancione ed Euromaidan hanno segnato fasi storiche nelle relazioni con la Russia. Tuttavia, i già citati eventi del 2014 avevano forse portato Putin a pensare che l'operazione militare speciale sarebbe stata veloce ed efficiente, in grado di modificare rapidamente l'élite politica ucraina e favorirne una filorussa.
Le aspettative si sono rivelate sbagliate non solo per la resistenza dell'esercito ucraino sul campo, ma anche per la capacità del presidente Zelensky di ottenere un vasto consenso interno ed internazionale. La sua efficace retorica, i suoi quotidiani messaggi alla nazione attraverso i social lo hanno portato a raccogliere intorno a sé e alla sua squadra di governo un vasto sostegno popolare. Inoltre, è riuscito ad autolegittimarsi nei confronti di tutti principali leader politici occidentali, attraverso le apparizioni video in diversi Parlamenti nazionali e le visite ufficiali a Kiev. Indipendentemente da quali saranno i suoi obiettivi nel breve periodo – l'ingresso nella Nato o nell'Ue – e da come si evolverà il conflitto, è difficile immaginare il futuro politico del paese senza la sua leadership.
Risulta evidente che porre fine alla guerra in Ucraina e pacificare la regione è un processo estremamente complesso, dagli elevati costi economici, politici e sociali. Favorire il cessate-il-fuoco, indirizzare le trattative diplomatiche, avviare la ricostruzione materiale ossia le fasi in cui il sistema umanitario globale si è cimentato fino ad ora in tutti i conflitti, non basterà. Questa guerra, escalation di dinamiche avviate da tempo da parte della Russia e fino ad ora tollerate dall’Occidente, impone responsabilità più evidenti ed azioni più coraggiose.
Si tratta di ridefinire il rapporto tra le grandi potenze, i ruoli, i meccanismi di controllo e di intervento. E’ necessario ed urgente riconsiderare i meccanismi alla base della dipendenza da energia e gas, a partire dalla consapevolezza che le risorse di cui tutti hanno bisogno si trovano nelle regioni in cui la democrazia non è il regime politico prevalente e la cultura della sicurezza non lascia la guerra come ultima istanza.
E’ necessario che milioni di cittadini siano consapevoli del fatto che acquistare beni necessari alla loro vita quotidiana passa attraverso negoziati con stati criminali, élites politiche compromesse con passati violenti e regimi illiberali. Di fronte a questo scenario inquietante, segnato dal ritorno all’azione militare ed esercizio del potere, le dinamiche multilaterali, apparentemente fallimentari, ritornano ad essere cruciali. Il sacrificio di migliaia di coraggiosi cittadini ucraini potrebbe costituire l’ennesima occasione mancata oppure la spinta decisiva per il cambiamento.
La prof.ssa Daniela Irrera