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Intervento della docente Mara Benadusi del Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell'Università di Catania
«Insomma, forse a lei non è ancora capitato» disse Alice
«ma quando dovrà trasformarsi in crisalide – le succederà prima o poi –
e in seguito in una farfalla, lo troverà un po’ strano, no?»
«No, per niente» disse il Bruco.
«Può darsi che lei sia diverso da me,» disse Alice
«quel che so è che io mi sentirei molto strana!»
«Tu!» disse sdegnoso il Bruco. «Ma chi sei tu?»
[Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll]
In questo incipit di primavera, la Giornata mondiale per la diversità culturale, il dialogo e lo sviluppo risveglia campanelli di allarme già messi a dura prova dal crogiolo di rischi a cui siamo stati esposti negli ultimi mesi. La ricorrenza, come sappiamo, si rinnova di anno in anno da quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la “Dichiarazione Universale della Diversità Culturale” nel 2002, cercando di dare corpo a quanto nella Costituzione dell’UNESCO già trovava una sua chiara, quasi lapidaria formulazione: “l’ampia diffusione della cultura e l’educazione dell’umanità alla giustizia, alla libertà e alla pace sono indispensabili alla dignità dell’uomo e costituiscono un sacro dovere che tutte le nazioni devono adempiere in uno spirito di mutua assistenza e sollecitudine”.
Tornare oggi a riflettere su quali potrebbero essere le condizioni favorevoli per rafforzare il legame tra diritti universali e culturali nel rispetto delle libertà fondamentali non può prescindere, a mio modo di vedere, da un confronto con la situazione di crisi che stiamo vivendo. Alla ottantasettesima giornata dall’inizio del conflitto, la guerra in Ucraina ci tiene attaccati allo schermo in cerca di aggiornamenti sul racconto quotidiano dell’invasione militare, mentre il dibattito imperversa sui valori della democrazia, le possibili minacce per la sicurezza europea e le riflessioni sui diritti di autodeterminazione del popolo ucraino, suscitando non pochi dilemmi su cosa significhi o potrebbe significare “pace” in questo frangente. Di pari passo, a più di due anni dall’inizio dell’emergenza pandemica, continuano i saliscendi del contagio, mentre la gestione del Covid-19 non sembra aver condotto a forme di accordo durature intorno a quale potrebbe essere la “nuova normalità” da cui ripartire. E anche in questo caso montano le discussioni sull’efficacia dei vaccini, sulla relazione tra salute pubblica e autonomia individuale, sulle responsabilità istituzionali, sociali, sanitarie che i governi e i cittadini sono chiamati ad assumere, con prese di posizione che sono andate progressivamente polarizzandosi.
Pro e anti-vax, pro e anti-scienza, pro e anti intervento NATO in Ucraina, pro e anti riarmo, pro e anti diversificazione energetica… Il livello di contrapposizione ha raggiunto toni così estremizzati da rievocare le prese di posizione intorno al famigerato “scontro tra civiltà”. Confliggono infatti nell’arena pubblica visioni del mondo assunte come incompatibili ancor prima di capire in cosa precisamente differiscano e soprattutto perché differiscano e da quale prospettiva (quella del bruco o della farfalla?)[1]. In questo caso però il senso “monoteistico” di cosa sia la civiltà non si costruisce solamente lungo le linee di divisione tra blocchi politici di lunga formazione pronti a riemergere sulla scacchiera del mondo, come immaginava lo scienziato politico statunitense Samuel P. Huntington[2]. Né ha senso chiedersi se sia il “tramonto dell’Occidente” o il “tramonto dell’Umanità” lo spettro da cui più dovremmo guardarci. Mi sembra – per dirla usando altre parole – che quel senso plurale ma al tempo stesso dialogico, non divisivo su cui si fonda la costituzione dell’Unesco vacilli, davanti ai nostri occhi più o meno increduli, anche per altre ragioni.
A rileggere oggi la dichiarazione sulla diversità culturale da cui abbiamo preso le mosse, che recita come la cultura rappresenti il perno per la costruzione di una società pluralista che si faccia garante di pace e sicurezza nel mondo, si fatica a non avvertire un certo stridore. E se sollecito le mie corde antropologiche per comprenderne il motivo, vengono fuori tutta una serie di interrogativi sui quali proverò a ragionare a voce alta.
A cosa può servirci il principio del pluralismo culturale per dirimere le controversie morali e le crescenti incompatibilità ontologiche che tanto le operazioni belliche in Ucraina quanto la gestione del Covid-19 stanno scatenando, finendo per rafforzare la convinzione che “il” mondo (almeno quello che conosciamo) stia andando inesorabilmente in frantumi? In nome di cosa possiamo a buon ragione difenderla? Non è affatto velleitario chiedersi come agisca nella pratica quella capacità di decentrare lo sguardo presupposta nella dichiarazione Unesco, nel momento in cui si passa dal piano astratto dei princìpi morali a quello incarnato delle relazioni sociali. Ha senso soprattutto quando l’altro in questione ha una forma (oppure una sostanza) in cui non tutti si identificano, e comunque non nella stessa misura e modalità. Insomma, non è irragionevole domandarsi se in questo frangente il valore della diversità culturale possa veramente, da solo, aiutarci a riconoscere l’identità dell’altro, dal momento che difficilmente possiamo pensarlo come un presupposto condiviso da cui ripartire.
La valorizzazione di una prospettiva pluralista in campo culturale riesce, per esempio, a fluidificare la risposta difensiva che scatta quando sentiamo minacciato il perimetro della nostra identità e quindi cominciamo a “mostrificare” l’altro? Funziona anche quando a farci sentire impauriti, perfino sgomenti è un virus circa 600 volte più piccolo del diametro di un capello umano capace di fondersi con le cellule liberando il suo genoma? Si deve solo al caso o un malcostume mediatico l’abuso dell’idioma marziale per parlare del contagio da coronavirus? Che a suscitare ansia e preoccupazione sia un “nemico invisibile” come è stato definito il Sars-Covid-19, un virus che si aggancia ai recettori cellulari mettendo in moto proteine per espandersi, o una potenza militare che, per quanto vecchio stampo, può contare su oltre 50.000 mezzi corazzati, l’anatema che si sente ripetere non cambia di molto: dalla guerra al virus alla guerra in Ucraina, il terzo conflitto mondiale è alle porte.
Come il valore della diversità culturale può farsi garante di pace e sicurezza mondiale in una simile circostanza? Quanto dobbiamo restringere oppure allargare l’imperativo morale del riconoscimento della pari dignità di ogni forma di vita per creare antidoti che possano servire contro l’intolleranza, l’aggressione, la violenza? È intolleranza l’isteria anti-russa che in Europa colpisce immigrati con cui – da tempo – condividiamo i nostri spazi di vita, a prescindere dalle posizioni che assumono rispetto alla guerra? È la congiuntura del momento che determina questo genere di discriminazione, rendendo gli uni degni di un moto di accoglienza senza precedenti e gli altri oggetto di repulsione? Ha senso chiedersi che significa trovarsi, ex abrupto, dall’una o dall’altra parte del mondo, provare a vedere le cose dal punto di vista degli altri? O in caso di pericolo, per mettere in moto meccanismi di solidarietà, è più efficace trasformare il “nemico interno” di turno in un capro espiatorio per le disfunzioni (sanitarie, geopolitiche, economiche, sociali) che abbiamo contribuito a produrre?
L’insieme di questi incalzanti interrogativi mi sembra condurci verso una questione di non poco conto: le differenze che di volta in volta andiamo categorizzando come buone o cattive da pensare sono riconducibili unicamente a una pluralità di visioni su un unico mondo (per quanto diviso ci possa sembrare al momento)? O rimandano invece a divergenze di prospettiva più radicali, che dipendono dal modo diverso in cui lo conosciamo e abitiamo il mondo? L’esercizio di Alice nel Paese delle meraviglie che chiede al bruco se si sarebbe sentito strano una volta divenuto farfalla, ha poco a vedere – mi pare – con un’apertura incondizionata, centrifuga e in fondo disincarnata di fronte alle molteplici equidistanti possibilità dell’essere al mondo. Segnala invece un problema di auto-riconoscimento nel mondo. Può il bruco riconoscersi una volta divenuto farfalla? Se fatti i debiti mutamenti (mutatis mutandis), non si scorgono tratti di comunanza tra ciò che si è stati e quel che si potrebbe essere, su quali presupposti possiamo basare il mutuo riconoscimento che sempre implica una forma di straniamento da sé?
Seguendo la dichiarazione Unesco, la comprensione reciproca e la possibilità di costruire un insieme condiviso di accordi e relazioni sarebbe l’unico modo per raggiungere quell’ideale di “coesione pacifica globale” a cui la giornata di oggi rimanda. Le nostre battenti domande però incoraggiano ad affrontare il tema del pluralismo culturale da una prospettiva che contempli la presa in carico delle problematicità derivanti dal vivere-insieme, vivere in mondi in cui le differenze si fanno “profonde”, cacofoniche e creano spazi di incommensurabilità. L’immaginazione etico-politica che ci parla di tante culture da riconoscere nella loro specificità non sembra reggere il passo rispetto alle sfide che abbiamo di fronte. Mutatis mutandis, forse l’unica zattera a cui possiamo aggrapparci è quella postura di “equivocità controllata” che l’antropologo brasiliano Viveiros de Castro assume dalle cosmologie amerindie: collocarsi nello spazio dell’equivoco e abitarlo, perché “l’equivoco non è solo una mancata comprensione, ma una comprensione mancata del fatto che i modi per comprendere il mondo non sono necessariamente gli stessi”[3].
La docente Mara Benadusi
[1] Sui rischi di oggettificazione culturale impliciti nell’idea di “scontro tra civiltà”, si veda: Dal Lago, A. (2005), Esistono davvero i confini fra culture?, in “Rivista il Mulino”, 5/2005, settembre-ottobre: pp. 809-820.
[2] Huntington, Samuel P. (2000), Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano.
[3] Viveiros de Castro, Eduardo (2004), Perspectival Anthropology and the Method of Controlled Equivocation, in “Tipití: Journal of the Society for the Anthropology of Lowland South America”, Vol. 2, n. 1: p. 11.