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Riflessioni attuative e auspicabili ricadute sulla condizione economico-sociale di Sicilia e Sardegna
Una due giorni intensa e ricca di contenuti e proposte quella tenutasi nell'aula magna del Palazzo centrale dell’Università di Catania con il convegno “Il principio di insularità nel nuovo art. 119 della Costituzione. Riflessioni attuative e auspicabili ricadute sulla condizione economico-sociale di Sicilia e Sardegna”, che ha fatto il punto sulla modifica in corso dell’art. 119 della Costituzione italiana, inerente appunto l’insularità.
Nutrito il gruppo degli organizzatori, costituito dal Centro di documentazione, ricerca e studi sulla cultura dei rischi di Catania, “cuore” dell’operazione, in stretta sinergia con gli atenei di Catania e Cagliari, l’Università eCampus, l’Autorità di sistema portuale del Mare di Sicilia orientale, l’Odimed (Osservatorio internazionale sui diritti umani nei Paesi del Mediterraneo), Confindustria Catania, gli Ordini etnei di architetti, avvocati, commercialisti e ingegneri e il Distretto Sicilia dei Lions International. Di rilievo l’asse venutosi a creare con la Sardegna: sono intervenuti da remoto anche il presidente della Regione, Christian Solinas, e il rettore dell’Università di Cagliari, Francesco Mola, mentre in presenza ha esposto la sua posizione Aldo Berlinguer, professore ordinario di Diritto comparato sempre a Cagliari (“Isole, Mezzogiorno e Mediterraneo: una sfida europea da cogliere appieno”).
«Si prevede che entro il mese di luglio 2022 verrà definitivamente approvata la modifica dell’articolo 119 della Costituzione in tema di insularità», ha evidenziato nel suo intervento Antonio Pogliese, presidente del Centro studi sulla cultura dei rischi, «completato l’iter parlamentare, le successive proposte attuative dell’articolo dovranno occuparsi delle “peculiarità delle isole e il superamento degli svantaggi derivanti dall’insularità”. Ciò si verifica in un momento storico in cui: si registra una massificata presa di coscienza, a differenza che nell’immediato passato, che l’allineamento della produttività del Sud a quella del Nord diventa pre-condizione per lo sviluppo economico dell’intero Paese; malgrado le incertezze dovute alla svalutazione monetaria e all’azione militare della Russia a danno dell’Ucraina, il Pnrr continua a rappresentare una opportunità di crescita economica e sociale per il Sud del Paese; vi è l’entrata in vigore delle Zes (Zone economiche speciali); vi sono specifici progetti di sviluppo dei sistemi portuali della Sicilia per migliorarne le performance nei flussi turistici e dei trasporti via mare; il 7 giugno scorso il Parlamento Europeo in seduta plenaria ha approvato (con 577 voti favorevoli, 38 contrari e 10 astenuti) la risoluzione “Isole e politica di coesione: situazione attuale e sfide future”, su proposta dell’europarlamentare Younous Omarjee, presidente della Commissione per lo sviluppo regionale».
Un momento dell'intervento del rettore Francesco Priolo
Con tale risoluzione, il Parlamento Europeo ha indirizzato alla Commissione la richiesta di un programma specifico e un patto per le isole per ridurre il divario socio-economico tra le aree continentali e le isole stesse. L’impatto di tale misura sulla Sicilia viene stimato in sei miliardi di euro. «Atteso che quasi tutte le isole del nostro Paese ricadono nel Mezzogiorno d’Italia», ha concluso Antonio Pogliese, «il tema dell’insularità risulta dunque essere una parte importante della cosiddetta Questione meridionale. Serve quindi avviare gli approfondimenti necessari per fare emergere le proposte per lo sviluppo delle isole, nel più ampio disegno di occuparsi della Questione meridionale non ripetendo gli errori del passato e proponendo progetti di sviluppo concretamente attuabili, nel rispetto della legislazione italiana ed europea».
Francesco Priolo, rettore dell’Università di Catania, ha dal canto suo sottolineato come «storicamente la condizione di insularità sia stata per la Sicilia uno svantaggio, un disagio soprattutto a causa dello stato delle infrastrutture. Sta a noi, adesso, agire per trasformarla in opportunità, partendo a esempio dalle risorse del Pnrr e puntando sulle nostre peculiarità, come il know how nel settore delle micro e nano tecnologie o la straordinaria biodiversità dell’Isola. O, ancora, facendo leva su una tendenza affermatasi nel periodo della pandemia come il “South working”: lavorare e creare ricchezza in Sicilia, anche se fisicamente il datore di lavoro ha sede altrove».
Per Roberto Bonaccorsi, sindaco facente funzioni di Catania, «è da evidenziare l’importanza della nuova posizione del Parlamento Europeo. Ora è davvero da attenzionare ogni contesto di riferimento, riconoscendo i giusti valori, visto che la condizione insulare della Sicilia crea un danno economico che è quantificabile nel 6,4% del pil regionale».
Il presidente di Confindustria Catania, Antonello Biriaco, ha invece puntato la sua attenzione sulle «infrastrutture che ancora di fatto sono inesistenti in Sicilia, soprattutto a Catania, nonostante una zona industriale con problemi atavici che la politica in decenni non è riuscita a risolvere, pure da sola produce il 23% del pil regionale, con imprese che creano tanta ricchezza diffusa».
Hanno porto un loro indirizzo di saluto Sebastian Carlo Greco, presidente dell’Ordine degli Architetti di Catania, Davide Negretti in rappresentanza di Rosario Pizzino, presidente dell’Ordine degli avvocati di Catania, e Salvatore Virgillito, presidente dell’Ordine dei commercialisti di Catania.
Un momento del lavori
Benedetto Torrisi, associato di Statistica economica, presidente del corso di laurea in Economia dell’Università di Catania ha presentato lo studio “I costi della Sicilia per l’insularità”: «abbiamo rapportato le interazioni commerciali tra le regioni italiane e 40 Paesi esteri (UE ed extra UE) e i risultati ci dicono che il ruolo cruciale è determinato dalle infrastrutture e dalle policy di far divenire esse centrali rispetto alle strategie di sviluppo dell’Isola. Infatti, laddove si continua a investire nel potenziamento della rete stradale, ferroviaria e portuale, le strategie per lo sviluppo corrono; mentre in Sicilia a contribuire sullo sviluppo sono solo i porti e la mancata continuità territoriale (che aumenta le distanze temporali, di tasse e di costi) rende non significativo il contributo degli indici infrastrutturali stradali e ferroviari (accade esattamente il contrario nel modello statistico generale italiano e UE)».
Maurizio Caserta, ordinario di Economia politica dell’Università di Catania ha posto la domanda se contino «le differenze geografiche nei percorsi di sviluppo oppure ciò che fa la differenza sono le istituzioni e gli incentivi? Essere distanti dai principali mercati e non avere un’ininterrotta via di collegamento terrestre è un vero handicap oppure è solo un modo per nascondere le proprie inefficienze? Quando si discute dei costi dell’insularità non ci si può esimere dal porsi questa domanda. Non si può escludere infatti che rivendicare una compensazione per lo stato di insularità venga utilizzato per continuare a tenere basso e poco costoso il livello di impegno del territorio. È importante quindi non sottovalutare i costi derivanti dalle caratteristiche geografiche del territorio, ma occorre vigilare perché ciò non serva a sottrarsi alle proprie responsabilità. L’autosufficienza economica va garantita a tutti, ma non può diventare un obiettivo che si sposta continuamente in avanti. Va individuato con sufficiente chiarezza il momento in cui l’insuccesso economico è prevalentemente responsabilità del territorio».
Dal canto suo, Felice Giuffrè, ordinario di Istituzioni di diritto pubblico, ha sottolineato come «la reintroduzione del riferimento alla condizione di insularità nell’art. 119 della Costituzione, dopo che era stato eliminato con la riforma del titolo V del 2001, rappresenti un importante indirizzo costituzionale che vale a orientare le politiche di attuazione del regionalismo in senso solidaristico, secondo la sua matrice originaria. La previsione costituirà, per un verso, obiettivo da perseguire dalla legislazione volta a sanare le condizioni di svantaggio, in termini di maggiori costi e deficit infrastrutturale delle aree insulari; per altro verso, parametro per l’eventuale sindacato di legittimità costituzionale della legislazione statale attuativa del regionalismo e quella con cui si determina il riparto delle risorse finanziarie».
Seconda e terza sessione del convegno sono state moderate da Francesca Longo, pro rettrice dell’ateneo catanese. Ha puntato il suo intervento sulla esigenza di una comunicazione efficace Antonello Piraneo, direttore responsabile de La Sicilia: «serve parlare in altra maniera della nostra isola, comunicando qualcosa di meno scontato per cambiare la percezione che si ha di noi, “brutti, sporchi e cattivi”. Serve parlare della Sicilia che funziona, serve comunicare bene quel poco o tanto che sappiamo fare. Serve soprattutto essere credibili quando si interloquisce con Roma e Bruxelles, andando oltre vittimismo e rivendicazionismo: sul Ponte occorre far capire quanto sarebbe utile al “sistema mondo” e lo stesso vale per l’insularità. Senza dimenticare che senza una progettualità, una visione di futuro, tutto rischia di restare vuoto, al più tema per un convegno accademico».
Rosario Lanzafame, ordinario di Sistemi per l’energia e l’ambiente all’Università di Catania, nonché presidente del Comitato scientifico del Centro sulla cultura dei rischi ha parlato della politica energetica del sistema Sicilia e segnatamente dell’auspicata transizione verso l’idrogeno: «il più innovativo obiettivo del Pears prevede lo sviluppo della filiera dell’idrogeno come efficace soluzione per conseguire la progressiva decarbonizzazione dell’energia elettrica per far fronte ai fabbisogni di interi settori produttivi e dei servizi anche dell’industria, particolarmente energivori (trasporto pesante e/o urbano, propulsione marittima, settore residenziale e il non meno importante comparto cosiddetto “hard to abate” comprendente le cementerie, acciaierie, raffinerie convertite alla generazione di biocombustibili). Proprio nel settore portuale, con l’affermazione della generazione locale dell’energia resa disponibile alle grandi navi durante il loro stazionamento in banchina, evitando l’inquinamento intollerabile dei centri urbani dei gruppi elettrogeni a gasolio, si profila una nuova grande opportunità che, unita alla prossima attuazione dell’hub gnl di Augusta e Porto Empedocle, intende trasformare la nostra terra, nella piattaforma tecnologica delle rinnovabili del Mediterraneo. Ora le AdSP possono costituire una o più comunità energetiche rinnovabili, contribuendo in tal modo alla crescita sostenibile del sistema Paese. Ciò sarà possibile grazie al Documento di pianificazione energetica e ambientale già approvato dall’AdSP dei Porti di Augusta e Catania nell’anno 2020».
Potente l’accusa di Carlo Alberto Tregua, direttore del Quotidiano di Sicilia, per il quale «non c’è tanto una questione Sicilia, quanto una questione siciliani. Siamo al 206° posto su 240 regioni europee e questo perché siamo un popolo che sistematicamente sbaglia scelte al momento delle elezioni, eleggendo incapaci e incompetenti. La Sicilia è piena di soldi, ma non li sa spendere. Ora serve passare dalla “cultura del favore” alla “cultura del merito”».
Nel pomeriggio della prima giornata sono intervenuti anche Francesco Di Sarcina, presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mare di Sicilia orientale (“Il progetto di sviluppo dei porti di Augusta e Catania”), e Massimo Cartalemi, project manager della Zona economica speciale della Sicilia orientale.
Un momento dei lavori
Nella seconda giornata, dedicata a infrastrutture, urbanistica e società, Enzo Siviero, rettore dell’Università eCampus e grande sostenitore del ponte sullo Stretto di Messina, ha evidenziato come «ormai tutti o quasi si siano convinti che il futuro dell’Italia passi dal Mediterraneo per proiettarsi verso l’Africa. È del tutto evidente che in questo quadro geostrategico il ruolo della Sicilia e dell’intero Meridione è cruciale e con esso il Ponte sullo Stretto di Messina diventa fondamentale e improcrastinabile. Del resto, il collegamento stabile tra Calabria e Sicilia è da decenni sancito dall’Unione Europea come parte del corridoio Berlino-Palermo più di recente ridenominato Helsinki-La Valletta. Ne consegue che i tentennamenti dell’Italia verso quest’opera, con ricorrenti “stop and go” puramente politici, sono del tutto incomprensibili a livello europeo. Ora finalmente sembra giunta l’ennesima conferma della necessità di un collegamento stabile. Del resto il ponte a campata unica ha avuto il placet tecnico, ma uno stop politico da parte del governo Monti, generando un pesante contenzioso tutt’ora in essere da parte del contraente generale Eurolink. Ecco però spuntare l’ennesimo ostacolo: archiviata la proposta “assurda” di un tunnel, “non volendo” incomprensibilmente accettare la soluzione più logica di aggiornare il progetto definitivo già approvato (tempo pochi mesi) ed eventualmente indire una nuova gara, si dà credito a una soluzione già bocciata da decenni come esito degli studi di fattibilità propedeutici all’indizione della gara internazionale (vinta da Eurolink). Ovvero, un ponte con piloni a mare, incredibilmente giustificato con uno sconcertante “presumibilmente costa meno”. Affermazione priva di riscontro oggettivo e certamente censurabile in un documento ufficiale. Tanto più che per valutarne la realizzabilità sono necessari studi e indagini molto estesi e costosi. Ma tant’è! Se non vi è consenso politico, vi è sempre qualche “tecnico” pronto ad avallare i voleri del ministro di turno. Ma quel che più indigna è il fatto che non viene spiegato in linea tecnica il perché si debbano spendere altri 50 milioni per studi di fattibilità già sviluppati nel passato (con non marginali profili di danno erariale), studi che semmai andrebbero semplicemente aggiornati. E come giustificare gli oltre 350 milioni spesi dallo Stato per il progetto definitivo a campata unica? Va ricordato che il progettista è la danese Cowi e la verifica parallela indipendente è stata sviluppata dalla statunitense Parson, società con decine di migliaia di dipendenti e con acclarata esperienza a livello mondiale su ponti di grande luce. Ma vi è di più, abbandonando il progetto iniziale, l’ulteriore ritardo nella partenza dei lavori per la realizzazione dell’opera è valutabile in almeno 5 anni. Orbene, procrastinare nel tempo una infrastruttura strategica come questa (del valore di 5-6 miliardi) significa penalizzare ulteriormente il Mezzogiorno. Mentre il costo dell’insularità è stimato in oltre 6 miliardi (ovvero un ponte all’anno) e i livelli occupazionali sono valutati in decine di migliaia. E il solo indotto fiscale conseguente agli investimenti sulla “metropoli della Stretto” consentirebbe un rientro in pochi anni dei costi che lo Stato dovrebbe sostenere. Va da sé (ma non sembra così chiaro a taluni contrari all’opera), che sarebbe ridotto drasticamente l’inquinamento dello Stretto, senza contare gli attuali rischi per la sicurezza conseguenti alle possibili collisioni dei traghetti. L’amara conclusione è che si “buttano” centinaia di milioni per ripartire da capo, ignorando le conseguenze di un ulteriore ritardo. Perché queste decisioni “masochistiche”? La quasi totalità dei tecnici “qualificati” e non asserviti alla politica la pensa allo stesso modo. In particolare il think tank Lettera 150 è impegnato a fondo per una soluzione veloce e sicura di questo ormai atavico problema».
Paolo La Greca, ordinario di Tecnica e pianificazione urbanistica dell'Università di Catania, ha proposto «una lettura territoriale volta a rintracciare i caratteri comuni che, a partire dalle specificità locali delle due Isole maggiori, delinea quelle “peculiarità” a fondamento della proposta per l’art. 119 della Costituzione. Prima fra queste lo straordinario valore paesaggistico e territoriale, gli ineguali caratteri ambientali, la peculiarità e l’estensione delle coste, l’opposizione sistema costiero-aree interne». Proponendo una immagine di Sabine Réthoré, La Greca ha sottolineato come «le due Isola siano al centro di un Mediterraneo che lungi dal separare un sopra e un sotto, propone due sponde speculari. Un mondo unito con due rive osmotiche che si attirano; due sponde che, anche se a volte in conflitto, sono all’origine della storia dell’umanità: da sempre necessarie l’una all’altra».
Biagio Bisignani, direttore della Direzione Urbanistica del Comune di Catania, ingegnere esperto della task force Pnrr del Ministero della Funzione pubblica, ha puntato su «considerare la Sicilia non tanto Sud, quanto Centro, nel senso di centro del Mediterraneo. E proprio partendo da questo criterio che si sono pensati gli interveti del Pnrr su Catania, una città potenzialmente in grado di ospitare tre milioni di persone, considerando il suo ingente patrimonio urbanistico». Bisignani ha altresì evidenziato le difficoltà della pubblica amministrazione, perennemente sotto organico: «l’Urbanistica di Catania dovrebbe avere 165 unità operative, mentre ne ha 20-25. Il che dà la misura di quanto sia importante il capitale umano nella crescita di un territorio».
Orazio Licciardello, ordinario di Psicologia sociale dell’Università di Catania, nonché vice presidente del Centro sulla cultura dei rischi, ha parlato di “Insularità e società: cambiare la cultura delle Istituzioni”), esortando ad andare oltre la retorica della “sicilitudine” e a «non cercare altrove le cause del mancato sviluppo dell’Isola, in primo luogo attribuibile al mal funzionamento della pubblica amministrazione».
A conclusione della due giorni, sono anche intervenuti Roberto Cellini, direttore del Dipartimento Economia e Imprese dell’ateneo di Catania, Enrico Foti, direttore del Dipartimento di Ingegneria civile e Architettura dell’Università di Catania (“La risoluzione Omarjee al Parlamento Europeo: accesso alle acque e ai servizi pubblici”) e Biagio Andò, professore di Diritto privato comparato sempre dell’Università di Catania (“Insularità e sviluppo tecnologico”).
Nella sua relazione di sintesi del convegno, Salvo Andò, presidente dell’Odimed, ha sottolineato come «il Mezzogiorno d’Italia non abbia una sua propria cultura del diritti da rivendicare. L’attuale Sud Italia è di fatto da decenni fuori da dibattito pubblico nazionale, laddove tutto lo spazio è stato di contro occupato dal Settentrione. Del resto, di peculiarità importanti può parlare solo una comunità che ha una precisa idea della propria identità e della civiltà cui appartiene. La Sicilia è mediterranea, deve solo comprenderlo appieno. Serve ora una sorta di sua riabilitazione e serve puntare sull’asse con la Sardegna con l’obiettivo di creare una euroregione insulare».
Le conclusioni del convegno sono state affidate al presidente della Regione Siciliana, Nello Musumeci, che ha parlato «di un momento di sano confronto su di un tema di grande attualità. La politica deve avere senso di responsabilità e l’umiltà di accostarsi al sacramento dell’ascolto. Ben vengano, dunque, le proposte della società civile e delle professioni: perché quello che serve alla classe dirigente, a ogni classe dirigente, è la capacità propositiva».
Per Musumeci, il nuovo articolo 119 della Costituzione sarà comunque «una preziosa scatola vuota da riempire. L’insularità è stata anche un alibi per i siciliani, per decenni appiattiti su di un modello economico che puntava sui settori primario e terziario, senza alcuna ambizione di crescita concreta. Ma non bastano i settori produttivi tradizionali per competere con il Nord del Paese. Marginalità e perifericità nei confronti dell’Europa si superano soltanto puntando a divenire la piattaforma logistica del Mediterraneo. Certo, ancora il percorso è ben lungo. Faccio un esempio: in Sicilia nessun porto può accogliere le grandi navi che transitano dal rinnovato canale di Suez. Non abbiamo porti e retroporti adeguati, è un dato di fatto. Storicamente, è mancata da parte dello Stato una visione di medio e lungo termine del Sud e della Sicilia e noi stiamo proprio ancora pagando questo».