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Il sito del nuovo organo ufficiale d'informazione d'ateneo è accessibile all'indirizzo www.unictmagazine.unict.it
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Intervento del prof. Guido Nicolosi sul rapporto tra istituzioni e cittadini relativo alla comunicazione del rischio alla popolazione
L’esplosione dell’epidemia da Coronavirus ha mostrato impietosamente quanto le nostre società fossero impreparate ad una evenienza di questo genere. Eppure, sostengono gli scienziati e diversi report pubblicati anche nel 2019, la minaccia di una pandemia potenzialmente devastante per la salute e l’economia del pianeta era stata chiaramente annunciata da almeno 15 anni. Nella speciale classifica mondiale stilata da uno studio americano pubblicato a ottobre 2019, per misurare la capacità di prevenzione e controllo di una possibile pandemia, il “Global Health Security Index”, l’Italia occupa soltanto la trentunesima posizione. Per il nostro Paese, sono molte le criticità rilevate e fa un certo effetto vederci surclassati dai migliori in classifica su indicatori fondamentali come la “capacità di testare e approvare nuove contromisure mediche” o la “disponibilità di apparecchiature mediche” o ancora la “robustezza del Sistema Sanitario”.
Tuttavia, in termini comparativi, la maggiore criticità evidenziata dai ricercatori statunitensi riguarda l’unico indicatore in cui siamo ampiamente al di sotto della media (solo 22 punti su 100 su una media mondiale pari a 39,4): la “comunicazione del rischio alla popolazione”. Un osservatore disattento potrebbe erroneamente valutare questo indicatore meno rilevante rispetto a quelli di matrice più propriamente “sanitaria”. Al contrario, la sua importanza è considerata fondamentale da tutta la comunità scientifica internazionale. L’Italia, su questo, è molto indietro e sconta un deficit storico nelle capacità previsionali e gestionali delle amministrazioni.
La società del rischio
La letteratura sociologica più accreditata ha dimostrato che la nostra è una “società del rischio”, ma che pericolo, crisi, emergenza non sono categorie oggettive perché sempre riconfigurate da mediazioni simboliche contestuali. Essi sono, cioè, in parte “reali” e in parte “socialmente costruiti”. Ciò che conta, nella cosiddetta “accettabilità” del rischio, è la sua percezione e quest’ultima è radicalmente influenzata (amplificata o attenuata) da una pluralità di fattori psicologici, etici, politici e culturali. Ciò è vero se riferito al cosiddetto pubblico dei profani, ma è anche vero con riferimento allo stesso mondo degli esperti. Lo scontro, talvolta anche molto acceso, a cui abbiamo assistito sui media in queste ultime settimane (il coronavirus è un banale virus influenzale o è la peste?) conferma il principio che diverse sensibilità possano ampiamente influenzare la lettura e l’interpretazione degli stessi dati scientifici. Ne deriva che la comunicazione giochi un ruolo decisivo e abbia ricadute importanti sui comportamenti delle persone, anche nei momenti delicati di gestione delle emergenze e delle crisi.
Percezione e accettabilità dei rischi
La ricerca ha dimostrato come la percezione e l’accettabilità del rischio dipendano da fattori come l’equa distribuzione di eventuali conseguenze, la familiarità dei comportamenti considerati rischiosi, oppure l’illusione psicologica di poter controllare una determinata fonte di pericolo. Per questa ragione, guidare fa meno paura di volare, nonostante viaggiare in auto sia decisamente più pericoloso di prendere un aereo. Tutti questi fattori, dunque, influenzano drasticamente anche la gestione comunicativa del rischio e delle sue conseguenze, in tutte le diverse fasi: preventiva (care communication), emergenziale (crisis communication), politica (consensus communication).
Rischio ‘fobocrazia’
A rendere il quadro particolarmente complesso, l’articolato “ecosistema mediatico” all’interno del quale viviamo nelle società contemporanee. Il rischio, infatti, è comunicato da una pluralità di attori, spesso in concorrenza tra loro e portatori di interessi, sensibilità, interpretazioni a volte anche opposti: governi e organismi sovranazionali, nazionali e locali, media, movimenti e partiti, associazioni, cittadini, stakeholders. All’interno di questo quadro tendenzialmente cacofonico, un intervento comunicativo istituzionale strategico pianificato è estremamente opportuno e può rappresentare la sottile linea di confine tra una gestione efficace oppure fallimentare del rischio o di una crisi emergenziale come quella che stiamo vivendo in questi giorni.
Aspetto non secondario, un intervento delle istituzioni nella produzione di una comunicazione efficace e scientificamente fondata può anche impedire che la percezione del rischio e dell’emergenza possa trasformarsi in un capitale politico a disposizione di spregiudicati “impresari della paura”, in grado di sfruttare surrettiziamente le diffuse espressioni di panico collettivo (terrorismo, migrazioni, epidemie, crisi climatiche, ecc.) che caratterizzano in maniera sempre più significativa le democrazie occidentali contemporanee, col rischio di trasformare i nostri sistemi istituzionali in pericolose forme di “fobocrazie” permanenti.
Il deficit italiano
Lo scoppio dell’epidemia da coronavirus ha tuttavia mostrato come la rilevazione della criticità sull’indicatore della comunicazione effettuata nel rapporto sul Global Health Security Index purtroppo fosse sinistramente previgente. L’Italia ha dimostrato un deficit comunicativo profondo e preoccupante. Secondo una recente indagine sulla percezione del rischio legata alla diffusione del Coronavirus effettuata da “Observa Science and Society”, un centro di ricerca indipendente, solo il 20% degli italiani si sarebbe affidato a fonti istituzionali (Ministero, Regioni, ecc.) per informarsi e solo il 6,5% ai medici di base, nonostante queste fonti siano considerate le più affidabili per conoscere le precauzioni da adottare.
La maggioranza degli italiani (il 52%) ha preferito informarsi seguendo i notiziari radiofonici e televisivi. Tuttavia, i media tradizionali, a causa della mancanza di un coordinamento pianificato della comunicazione, hanno realizzato una mediatizzazione polifonica della crisi, favorendo la confusione e una crescente tensione allarmistica. Infatti, nelle condizioni di emergenza, la mancata coerenza nelle interpretazioni sulla “causa” (qui il coronavirus) è un fattore destabilizzante rispetto a un pubblico che, non dimentichiamolo, è allo stesso tempo vittima. In più, i media, al fine di perseguire il proprio interesse (audience), non hanno esitato a drammatizzare la narrazione degli eventi, con una copertura massiva, enfatica e schizofrenica (alternando rassicurazioni ad allarmismo). A volte, va detto, hanno anche “giocato sporco”, con titoli ad effetto e notizie solo parzialmente vere.
Nuovi media amplificatori dei sentimenti
Nonostante l’enfasi sulle cosiddette fakenews, i nuovi media hanno giocato un peso informativo minore (solo il 7% si sarebbe affidato ai social media). Molto più importante il loro ruolo come amplificatori dei sentimenti, come conforto e confronto sociale e come cassa di risonanza delle angosce collettive. Anche questo è un dato su cui riflettere. Il potenziale informativo e comunicativo dei social media dovrebbe essere sfruttato maggiormente dalle istituzioni nella gestione di una crisi di questa portata.
La comunicazione istituzionale è stata ondivaga e contraddittoria. Ad una primissima fase caratterizzata da una certa minimizzazione, ha fatto seguito un’offerta informativa spesso scandita da una pressione allarmistica, probabile riflesso di un cambiamento complessivo nella strategia di contrasto alla diffusione dell’epidemia. Ovvero, l’adozione di un modello aggressivo di “soppressione”, rispetto a quello più soft (di “mitigazione”), adottato da altri Paesi. Tuttavia, un registro comunicativo “forte” può rivelarsi una scelta azzardata, perché presenta importanti controindicazioni dal punto di vista della tenuta complessiva dell’ordine sociale.
Ad esempio, la “colpevolizzazione” di comportamenti individuali considerati “non allineati” ha provocato forme estreme di “panico morale”, con la conseguente definizione di capri espiatori e forme odiose di delazione sociale. Penso ad esempio ai gruppi organizzati di delazione sui principali social media, o ai runner inseguiti e strattonati dalla polizia locale, nonostante l’attività fisica in regime di isolamento fosse stata sostenuta dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
Abuso di numeri, metafore e… macchiette
Sono diverse le criticità da rilevare nella comunicazione istituzionale sull’emergenza Coronavirus in Italia, qui mi limito a segnalarne quattro: un’incomprensibile e controproducente enfasi “numerologica”, l’abuso metaforico (il virus come guerra), la mancata presentazione di una chiara prospettiva di uscita (quando? come?) dalla crisi, il cattivo coordinamento comunicativo tra centro e periferia. Quest’ultimo aspetto risulta essere particolarmente importante.
Le linee adottate, nelle diverse fasi, dalle diverse autorità locali o regionali sono state differenti e spesso senza raccordo con le istanze centrali di gestione. In alcuni casi, abbiamo assistito all’emersione di vere e proprie posture macchiettistiche da parte di alcuni sindaci o governatori. Probabilmente, il passaggio-simbolo del cattivo coordinamento centro-periferia è stato il “giallo” della circolazione anticipata della bozza del decreto del governo che autorizzava la chiusura della Regione Lombardia e di altre 14 provincie. Una mancanza dalle conseguenze importanti per le regioni del sud Italia e che ha gettato un’ombra sull’operato della Regione Lombardia.
Costruire fiducia
La comunicazione del rischio e dell’emergenza rappresenta un ambito estremamente complesso, perché esposto a variabili molteplici e di difficile definizione operativa. Inoltre, essa è sempre esposta al fallimento poiché la possibilità di essere eccessivamente allarmistici per alcuni e di sottostimare i pericoli per altri è sempre in agguato.
Ma proprio per questo motivo non è possibile lasciare questa “difficile arte” all’improvvisazione. Una preparazione preventiva dei processi e delle pratiche, basata sull’analisi scientifica differenziata in relazione ai diversi contesti e target di riferimento, così come lo sviluppo di piani di comunicazione articolati ed efficaci, possono quanto meno ridurre le probabilità di un fallimento. Sullo sfondo rimane un aspetto determinante e troppo spesso sottovalutato: la fiducia nelle istituzioni. Spesse volte i giudizi su un determinato rischio riflettono fedelmente i giudizi sulla credibilità delle istituzioni chiamate a gestirli. La fiducia non è una risorsa che si costruisce in poche settimane, ma un capitale che richiede molto tempo per essere accumulato e che può essere disperso molto rapidamente. Necessario mantenere, nel tempo, una relazione positiva tra istituzioni e cittadini, favorendo un proficuo scambio comunicativo continuo e duraturo.