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La prof.ssa Roberta Piazza: «La crisi in atto ci offre la possibilità di ripensare la didattica degli atenei, ma serve un investimento importante»
Tutti gli Atenei italiani, nel rispondere all’emergenza del COVID-19, hanno reagito con straordinaria prontezza, guidati dall’obiettivo che nessuno studente dovesse perdere lezioni e esami. L’Università di Catania è stata in grado di organizzare, nello spazio di una settimana, l’avvio di lezioni on line che oggi sono erogate da tutti i Corsi di studio, impegnati nel faticoso compito di realizzare esami e lauree, predisporre tirocini e laboratori virtuali, programmare le attività di orientamento per gli studenti delle superiori, offrire supporto agli studenti disabili. Tutto rigorosamente on line.
La Dad come risorsa
La didattica a distanza si è rilevata una risorsa preziosissima per consentire il prosieguo delle attività didattiche e assicurare una qualche normalità ai nostri studenti che, lontani e chiusi nelle loro stanze, hanno mantenuto i legami con la comunità accademica grazie a una rete di preziosi rapporti umani e, soprattutto, digitali (connessione internet permettendo).
La transizione a un sistema di didattica a distanza non è stata indolore. Vorrei chiarire questo aspetto ai lettori (ma anche ai vertici istituzionali): da un giorno all’altro, docenti che avevano svolto la loro didattica in presenza sono stati catapultati di fronte al video dei loro computer, armati del senso di dovere e di attaccamento all’istituzione e della consapevolezza dei loro compiti educativi. Quelle università che avevano già avviato in anni recenti la formazione a distanza (e ve ne sono diverse fra le pubbliche, provviste di Centri di didattica on-line o di Centri e-learning), non hanno subito alcuna scossa, se non nell’aumento del lavoro nel registrare le lezioni che già erogavano per i loro studenti, così come per i lavoratori.
Sperimentazione forzata
Moltissimi Atenei, invece, la gran parte, direi, si sono ritrovati immersi in una sperimentazione forzata che della sperimentazione non ha avuto nulla. Non si è trattato di collaudare l’innovazione della didattica a distanza su scala nazionale, valutandone gli esiti. Non si è pensato di controllare con opportuni strumenti i risultati di un processo volutamente indirizzato, verificando, ad esempio, come reagivano gli studenti e i docenti, che pure partecipano con tanta dedizione a questa prova. Ma, soprattutto, forse anche a causa delle condizioni di emergenza, non si è affrontato con i docenti il discorso sulla valenza dell’attività a distanza, sul rinnovamento delle metodologie di insegnamento e di valutazione, sulla modifica delle relazioni fra studenti e insegnanti. Eppure la pedagogia si occupa da tempo delle regole di impostazione didattica che presiedono alla costruzione di attività on-line e molti colleghi pedagogisti, in tutta Italia, ne hanno fatto uno specifico campo di ricerca e di applicazione. Ignorando la didattica dell’insegnamento on line – che richiede tempi di lezione ridotti, un’organizzazione ben strutturata dell’attività da condurre, la predisposizione di attività specifiche per l’interazione con gli studenti – ci si è illusi che la replica delle modalità trasmissive proprie di molte lezioni in presenza, alle quali i nostri studenti sono avvezzi, potesse risolvere l’emergenza. Solo che quella che si riteneva un’emergenza di poche settimane sta diventando una situazione che, a sentire le previsioni, potrebbe vedere il ritorno gli studenti in aula tra fine settembre e gennaio 2021.
La Dad nel futuro delle Università
La domanda da porsi è se e come vogliamo utilizzare questa esperienza per il futuro della nostra Università. La didattica a distanza offre diverse opportunità: raggiunge un più alto numero di studenti, coinvolge anche i cosiddetti “studenti non tradizionali” (si pensi ai lavoratori o, in genere, agli adulti che vogliono rientrare in formazione ma non possono per inconciliabilità di impegni), consente di personalizzare l’apprendimento ai tempi e ritmi dello studente. Possiede ovviamente anche molti svantaggi, legati, ad esempio, al digital divide e all’impossibilità di fruire delle lezioni per studenti che non possiedono computer o connessioni adeguate.
Lungi dal panegirico dell’innovazione buona a tutti i costi e dell’idea di e-learning come panacea di tutti i mali, l’introduzione della didattica a distanza, affiancata alla didattica tradizionale, richiede un investimento progettuale importante.
In termini pedagogici, significa consentire ai docenti di acquisire competenze didattiche specifiche, adatte a mutati strumenti digitali da utilizzare, dei quali oggi, a prescindere dall’emergenza, è quasi impossibile fare a meno. La non entusiasmante qualità dei corsi predisposti nella congiuntura attuale da docenti alla loro prima esperienza di e-learning non può costituire la prova per sostenere l’inconsistenza educativa dell’e-learning e invocare il ritorno all’aula.
Ripensare la didattica universitaria
Piuttosto, se riteniamo, come educatori, che il nostro compito sia fornire agli studenti esperienze di apprendimento quanto più arricchenti possibili, la possibilità che ci offre il COVID-19 è di ripensare la didattica universitaria. Affinché i nostri giovani acquisiscano conoscenze e siano in grado di sperimentarle, apprendano a confrontarsi con i problemi della contemporaneità per diventare cittadini consapevoli, assumano consapevolezza critica dei media, strutturino coscienza della loro identità professionale, il rinnovamento del “come insegniamo” appare essenziale. Un rinnovamento che parta, però, dalle innovazioni e dalle sperimentazioni che la ricerca pedagogica può contribuire a far radicare nel terreno.
*Docente di Pedagogia generale e sociale - Università degli studi di Catania