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L'intervento della prof.ssa Gabriella Nicosia, docente di Diritto del Lavoro, sui possibili sviluppi del lavoro agile nella Pubblica amministrazione
Ragionare di smart working, o lavoro agile che dir si voglia, in un momento in cui la pandemia correlata al Covid 19 ne ha lasciato emergere solo la positiva necessità, è questione non facile per un giuslavorista, e per una giuslavorista lo è ancora meno.
Va subito chiarito che lo smart working, cui si è fatto ricorso in questi mesi, non è un vero smart working, o, per essere più chiari, non è esattamente quella tipologia di esecuzione della prestazione lavorativa che il legislatore aveva in mente nel momento in cui ha scritto la legge n. 81/2017.
Alternanza intra-extra moenia
Cerchiamo di capire, allora, cosa è e a cosa serve, o dovrebbe servire, il lavoro agile ai sensi della normativa appena citata. Si tratta di una “modalità di lavoro”, concordata, cui possono ricorrere tanto le aziende private quanto le amministrazioni, in quest’ultimo caso con gli opportuni adattamenti.
Va, però, da subito detto che tale modalità di lavoro - diversamente da quanto è possibile osservare in questa particolare contingenza storica - per quanti accordi si possano fare, non dovrebbe spingersi sino ad abbracciare l’intera prestazione di lavoro, al contrario, e per espressa previsione di legge, “la prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all'interno di locali aziendali e in parte all'esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva” (art. 18 l. 81/2017).
Misura obbligata di contrasto e contenimento
Il lavoro in modalità agile implementato ai tempi del Covid19 è, allora, qualcosa di diverso dal tipo originario previsto e regolato dal legislatore del 2017. Epperò pure la circolare del Ministro per la Pubblica Amministrazione, del 4 marzo di quest’anno, si riferisce allo smart working nei termini di ulteriore misura per contrastare e contenere l’imprevedibile emergenza epidemiologica.
Non importa, quindi, che si perdano alcuni tratti caratterizzanti la fattispecie, come la necessaria alternanza fra lavoro in azienda (o dentro un’amministrazione) e lavoro in (o da) remoto; tutto questo perché prevalgono le fattezze di misura posta a tutela della salute che, in quanto tale, va accolta nonostante la forzatura applicativa nei termini ora descritti.
Da opportunità a risorsa
Pur con l’evidente scostamento dal tipo, di cui si è appena detto, lo smart working si è rivelato una autentica risorsa in un momento storico in cui non si avevano a disposizione altri strumenti in grado di coniugare in modo efficace la continuità nel lavoro con l’allontanamento dalla sede del suo naturale svolgimento.
L’emergenza Covid19 ha consentito, infatti, di valorizzare, e di guardare sotto una luce diversa, un modo di lavorare al quale, ed erroneamente, si pensava dovessero rivolgersi, almeno fino a qualche mese fa, per lo più le lavoratrici.
Nella ‘fase due’
La domanda che sorge, allora, spontanea è legata alla fase “due” di cui si fa un gran parlare in questi giorni. Cosa accadrà, una volta contingentata l’emergenza e determinato il riavvio del motore lavorativo in tutto il paese? Il lavoro agile tornerà ad essere utilizzato nella propria formulazione originaria, con la prevista alternanza intra/extra moenia delle aziende o PA, con moduli cioè che prevedono in parte la presenza nei luoghi di lavoro e in parte la possibilità di lavorare all’esterno dei medesimi, senza una postazione fissa? Personalmente propendo per il recupero delle fattezze originali della fattispecie lavoro agile e proverò pure a spiegare il perché.
Conciliazione e produttività
Prima, però, occorre ancora fare chiarezza su un altro aspetto, ovvero quale sia la vera funzione del lavoro agile. Quella, cioè, che la ratio della normativa intendeva perseguire in tempi di normalità.
Se nell’immaginario collettivo si è tentati, infatti, di riflettere solo sulla essenziale funzione di conciliazione fra tempi di vita e tempi di lavoro (o lavoro e lavoro di cura), che questa disciplina indubbiamente racchiude, non può essere sottaciuto l’altro corno funzionale di questo modus operandi: il miglioramento della qualità del lavoro erogato, della produttività.
E questo specie negli apparati pubblici, da sempre assetati di efficienza. Su questi, in particolare, vorrei indirizzare le riflessioni di seguito prospettate anche perché è l’ambito che interessa direttamente le Università.
Lavorare felicemente e produrre di più
Non faccio mistero della mia personale propensione per la valorizzazione di una delle disposizioni più virtuose confezionata dal legislatore da un ventennio a questa parte, e cioè quella destinata a favorire il benessere, lo star bene, nei luoghi di lavoro pubblici. Dal momento in cui questa previsione è stata introdotta nel nostro ordinamento (nel 2010, per l’esattezza), è lentamente ma progressivamente attecchita nei processi organizzativi pubblici, e questo nonostante l’iniziale sottovalutazione della relativa importanza e pure una certa diffidenza.
Lavorare agile potrebbe, allora, rivelarsi uno dei modi in cui è possibile lavorare sentendosi bene (anzi felici) e producendo di più. O almeno così sembrerebbe alla luce dello studio condotto dal Politecnico di Milano che, negli ultimi anni, ha indirizzato un focus sull’implementazione dello smart working tenendone il polso attraverso uno specifico Osservatorio.
L’indagine del Politecnico di Milano
Secondo i numeri tratti dall’indagine svolta dal Politecnico di Milano gli smartworker sono mediamente più soddisfatti sia del rapporto con colleghi, e con i coordinatori, che della modalità organizzativa del proprio lavoro. Fra le principali ragioni che hanno spinto i lavoratori ad aderire al progetto agile, emergono non solo quelle di carattere personale, come la riduzione dello “stress da pendolare” e la ricerca di un migliore equilibrio tra vita privata e professionale, ma anche ragioni lavorative connesse all’aumento della motivazione e della produttività. Significative pure alcune considerazioni correlate all’attenzione per l’ambiente, pure queste strettamente intrecciate con la riduzione delle emissioni dovute agli spostamenti tra casa e ufficio.
Pure i manager, responsabili della valutazione delle performance di questi lavoratori, sono stati coinvolti nei questionari e i dati hanno lasciato emergere l’apprezzamento per la maggiore responsabilizzazione sul raggiungimento dei risultati, il miglioramento dell’efficacia del lavoro e della gestione autonoma delle urgenze, oltre a un impatto positivo sulla condivisione delle informazioni e sul coordinamento.
Motivazione, qualità, maggiore collaborazione
Dello stesso tenore l’indagine condotta dal Ministero dell’Economia e delle Finanze nell’ambito del progetto pilota di lavoro agile “Be MEF, Be SMART”, dalla quale è possibile ricavare dati altrettanto confortanti. Fra i profili di soddisfazione ascrivibili alla parte datoriale vale la pena evidenziare, per esempio, l’incremento della motivazione del personale, il miglioramento qualitativo e quantitativo dell’attività espletata, nonché il miglioramento nell’organizzazione del lavoro in ragione del più elevato spirito di collaborazione; dal versante dei lavoratori è emersa specularmente la soddisfazione dovuta alla percezione dell’investimento di un capitale di fiducia sugli smart worker, l’Incremento della motivazione, il risparmio in termini di tempo impiegato per raggiungere la sede di lavoro e riduzione dello stress connesso, nonché i profili di migliore conciliazione delle esigenze personali/familiari con l’attività lavorativa.
È tutto ‘smart’ quel che luccica?
Ma davvero lo smart working racchiude solo profili positivi, o nasconde insidie da contemplare ed eventualmente disinnescare?
Alcune criticità sono subito riconducibili ad un profilo essenziale presupposto, in verità, in ciascun rapporto di lavoro ma qui particolarmente evidente: la fiducia ed il reciproco affidamento sottesi alla relazione fra datore di lavoro e lavoratore, ma anche fra dirigente e collaboratori.
La parte datoriale deve potersi fidare e affidare al lavoratore in (o da) remoto, e altrettanto deve fare, per proprio conto, la dirigenza.
Questo comporta inevitabilmente l’affinamento delle tecniche di rilevazione delle performance e la migrazione consapevole verso un modello basato, almeno per la prestazione lavorativa svolta da remoto, sull’assegnazione di obiettivi sapientemente costruiti e sulla concreta ed efficace possibilità di verificarne, dopo, l’effettivo conseguimento.
Ma comporta pure la valorizzazione di strumenti di progettazione come il Piano triennale delle Performance e, come contraltare, l’adattamento e il rilancio del SMVP (Sistema di misurazione e valutazione delle performance) all’interno del quale occorre, quindi, prevedere le modalità applicative del lavoro agile.
Le sfide della PA
I nostri apparati pubblici sono pronti per una sfida di questo tenore? Sono davvero pronti a superare tutte le resistenze che, per esempio, si sono frapposte agli omologhi tentativi di introiettare in tutte le amministrazioni la cultura del management per obiettivi e della valutazione delle performance?
È qui che appare in tutta la sua pregnanza il ruolo del dirigente/manager e l’importanza del personale stile di leadership da mettere in campo.
È qui che la decisione autonoma può fare davvero la differenza e segnare una vera trasformazione nello stile dirigenziale. In altri termini, se il lavoro diventa smart, altrettanto è opportuno faccia la dirigenza nell’affinare le proprie doti comunicative, nel costruire obiettivi condivisi e nel motivare e responsabilizzare i propri collaboratori al relativo raggiungimento; tutto questo mantenendo inalterato, anzi valorizzandolo, lo spirito di gruppo e il senso di appartenenza ad una squadra. Insomma, alla spersonalizzazione di parte della dinamica lavorativa deve fare da contrappeso la personalizzazione del modo in cui viene organizzato il lavoro.
Perdita della socialità e diritto alla disconnessione
Altra criticità di non poco momento, e così riannodo i fili del ragionamento dal quale sono partita, è quella tutta al femminile dell’inevitabile “rientro a casa” delle donne, con tutto ciò che questo comporta in termini di perdita della socialità e interazione con altri colleghi e di sostanziale azzeramento della faticosa emancipazione dal tradizionale ruolo di regina del focolare.
A questo si aggiunga che, senza uno specifico intervento regolativo (mi riferisco alla configurazione del diritto alla disconnessione), e con tutti i vincoli della contrattazione collettiva, è assai concreto il rischio che diventi difficile prendere le distanze dalle attività lavorative.
Essere sempre connessi e raggiungibili per il datore di lavoro, può rendere il rimedio peggiore del male e rischiare di trasformare il lavoro agile in una possibile causa di conflitto tra lavoro e sfera personale, proprio perché il confine tra lavoro e vita privata tende a diventare evanescente. Senza contare, poi, gli aspetti correlati alla tutela della sicurezza e del buon funzionamento di strumenti e attività da remoto.
Se davvero, superata l’emergenza, si vuol consolidare l’esperienza del lavoro agile, riempiendo di contenuti l’invito (e la tensione) a moltiplicarne i casi di utilizzo, ferma restando l’opportunità di adattare l’istituto alle peculiari esigenze di ciascuna amministrazione, sarà contestualmente consigliabile, non solo rispettare i tratti significativi della fattispecie tipica, ed in particolare l’alternanza lavoro in sede/lavoro da remoto, ma attivare anche quei meccanismi di verifica - affidati agli Organismi Indipendenti di Valutazione o ai Comitati unici di garanzia - dell’effettivo raggiungimento di un buon livello di benessere organizzativo qualunque sia il luogo in cui si adempia la propria prestazione lavorativa.
*Professore associato di Diritto del Lavoro nel Dipartimento di Giurisprudenza - Università degli Studi di Catania
Smart working, come lavorare in sicurezza - 10 semplici consigli da seguire (Consortium GARR)