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Teledidattica, inatteso cambiamento metodologico della didattica a scuola e all'Università?

Intervento del prof. Stefano Lentini, ricercatore di Storia della pedagogia, tra storia, emergenza sanitaria e pedagogica, tecnologia e criticità della didattica a distanza

18 Aprile 2020
Stefano Lentini*

L’emergenza epidemiologica è entrata nelle nostre vite in modo dirompente, sconvolgendo repentinamente le più normali abitudini relazionali, sociali e professionali. Nella narrazione televisiva delle prime fasi, il Covid-19 sembrava un problema assai distante, per certi versi intangibile, e che abbiamo appreso attraverso le immagini provenienti da una Cina isolata, dalle strade deserte, alle prese con la costruzione di strutture ospedaliere immense in pochi giorni.

Poi un’accelerazione: il virus tocca l’Italia, ma sembra essere ancora qualcosa di circoscritto ad una piccola zona geografica; nel giro di qualche settimana, il governo mette in atto una serie di provvedimenti restrittivi per il contenimento dell’epidemia che, nel frattempo, assume le proporzioni di una pandemia.

Tra l’incredulità e lo stupore, tutto avviene in modo rapido: il racconto giornalistico della fredda conta dei contagi, dei malati in terapia intensiva, dei deceduti, la sospensione delle attività didattiche in tutte le scuole e le università, quella di tutti gli eventi culturali e sportivi in programma, e infine la progressiva chiusura di tutte le attività commerciali non essenziali; questi i passaggi che scandiscono, come nelle sequenze delle scene di un film, la lenta normalizzazione della pratica del “distanziamento sociale”.

Emergenza sanitaria e pedagogica

L’emergenza sanitaria, e poi economica, diventa subito una emergenza pedagogica; serve dare una risposta concreta al Paese, soprattutto alle giovani generazioni, sospese fra l’iniziale euforica notizia della temporanea sospensione delle attività didattiche, e la lenta presa di coscienza di un problema che manifesta l’incertezza di ciò che potrebbe accadere.

La risposta della scuola e dell’università italiana, però, appare da subito ferma e decisa: non si può negare agli studenti il diritto all’istruzione, non si possono negare i sogni e i progetti di vita alle nuove generazioni. Nessun tentennamento, nemmeno nel nostro ateneo, con una reazione immediata, e persino anticipatrice rispetto ad altre realtà geografiche regionali: il 6 marzo scorso, un video del rettore, prof. Francesco Priolo, annuncia alla comunità accademica e studentesca una operazione colossale a favore del diritto allo studio.

È una pagina importante della storia della nostra istituzione, tra le più antiche Università, quella che dirigenti, personale docente, personale amministrativo e studenti sono chiamati, ancora oggi, a scrivere: un piano di didattica a distanza che conta ben 1.818 insegnamenti diversi e la prosecuzione di esami, lauree e altre attività istituzionali già programmate.

All’inizio era Telescuola

Tralasciando l’emergenza epidemiologica, da storico dell’educazione constato subito che non si tratta di una novità nella storia delle istituzioni educative, e il mio pensiero vola, in questi momenti, all’Italia della fine degli anni ’50, quando, negli anni del boom economico, il Paese si affidava al supporto della didattica a distanza per mantenere le promesse del dettato costituzionale repubblicano: una scuola aperta a tutti, obbligatoria e gratuita per almeno 8 anni; libertà di insegnamento; l’accesso ai gradi più alti degli studi per i meritevoli anche se privi di mezzi.

Fu un periodo di grande cambiamento per gli italiani usciti dagli anni del regime e della guerra; mutavano gli stili di vita, si diffondevano le auto, e gli elettrodomestici, soprattutto la televisione, entravano nelle case degli italiani. L’era della tecnica si sviluppava nel vivaio di una realtà sociale caratterizzata da un bisogno crescente di istruzione, ormai percepito, da strati sempre più ampi della popolazione, come bene di prima necessità, per poter cambiare la propria condizione sociale.

Per sopperire ai limiti di una scuola scarsamente accessibile a tutti, perché inesistente nei piccoli centri urbani e rurali, o perché difficilmente frequentata dai figli delle famiglie svantaggiate, costrette ad impiegare lavorativamente la prole per il sostentamento dei numerosi nuclei familiari, partiva, nel 1958, il primo anno scolastico di Telescuola, un progetto di formazione a distanza fruibile attraverso la televisione, frutto di un accordo tra l’allora ministro della Pubblica Istruzione Aldo Moro e la RAI (circolare ministeriale n. 308/1958).

Sui banchi davanti a uno schermo

L’accordo tra la RAI ed il Ministero della Pubblica Istruzione prevedeva che la prima mettesse a disposizione ogni attrezzatura necessaria alla realizzazione delle video lezioni, ed il secondo provvedesse alla selezione degli insegnanti ed alla implementazione dei Posti di Ascolto Telescuola (PAT), locali nei quali si trovava istallato un apparecchio televisivo e una figura tutoriale per il supporto alle attività didattiche. La lezione si svolgeva all’interno dello studio televisivo, in un ambiente che riproduceva esattamente un’aula scolastica: una cattedra, l’insegnante, i banchi e persino gli alunni. Non si utilizzavano ancora i filmati per il supporto alla didattica, e ai bambini in studio, così come ai telespettatori, venivano mostrati oggetti reali per lo svolgimento della lezione. Al posto dei libri di testo, i ragazzi e gli insegnanti disponevano di una pubblicazione mensile che raccoglieva le lezioni teletrasmesse.

La didattica istituzionale di Telemedia

Nel frattempo, l’istituzione della tanto agognata scuola media unica, che sarebbe arrivata solo qualche anno più tardi, nel 1962, prometteva a tutti gli italiani, a prescindere dalle differenze di estrazione sociale, qualcosa di più dell’acquisizione del saper “leggere, scrivere e far di conto”, come l’accesso allo studio del latino.

Il DM 24 aprile 1963, Orari e programmi d’insegnamento nella scuola media statale affidava ai docenti la grande opera educativa di una scuola che metteva tutti quei ragazzi, dagli undici ai quattordici anni, per la prima volta, nella medesima posizione di partenza di fronte alla vita, in vista di un loro attivo inserimento nella vita sociale ed economica del Paese. Ma l’ambizioso progetto politico-pedagogico si scontrava, ancora una volta, con i problemi dell’edilizia scolastica dell’Italia della ricostruzione post bellica, e con l’impreparazione della vecchia classe insegnante ai nuovi obiettivi sociali di un Paese ormai sulla via della modernizzazione, pregna, com’era, di quella cultura gentiliana contraria alle aperture poco selettive della nuova scuola media unica. Nel mese di ottobre 1961, anticipando di un anno la riforma, Telescuola subiva un significativo cambiamento volto ad assecondare le necessità della nascente scuola media unica, e la trasmissione prese il nome di Telemedia.

I posti di ascolto non avevano più il carattere informale della prima esperienza di Telescuola, ma quello istituzionale, che li assumeva come sezioni distaccate di una scuola media dove, alla fine del triennio, i ragazzi si sarebbero presentati a sostenere l’esame di licenza. Finita l’emergenza, quando la frequenza alla scuola media unica si generalizzò progressivamente, con una diffusione capillare degli edifici scolastici ad essa dedicati, nel 1966, si concluse l’esperienza di Telemedia.

La lavagna del maestro Manzi

A questa esperienza di “teledidattica”, ne seguirono altre, non meno importanti, come “Non è mai troppo tardi”, trasmissione televisiva condotta dal maestro Alberto Manzi; forse i più giovani non conoscono il nome e il volto di questo maestro, che rimangono tuttavia impressi, in modo indelebile, nel ricordo di quanti, negli anni ‘60, impossibilitati a frequentare la scuola per varie ragioni, usufruirono delle lezioni, oggi diremmo “on-line”, per apprendere l’alfabeto e le operazioni algebriche più elementari.

Quella esperienza di teledidattica consentì a milioni di italiani, di ogni età (persino ultrasettantenni!), di portare a termine un percorso di istruzione di base, grazie al quale riuscirono ad acquisire quel minimo di indipendenza necessaria per svolgere operazioni che oggi sono considerate banali: mettere una firma in luogo del segno X, leggere o scrivere una lettera senza richiedere l’assistenza di qualche amico o di un parente, tenere la contabilità della propria attività commerciale. 

Malgrado le ingenti risorse economiche impiegate nel primo anno dell’esperienza della televisione scolastica, il bilancio risultò davvero poco brillante. Lo storico dell’educazione Antonio Santoni Rugiu, in un articolo intitolato Scuola e radio-televisione sulla rivista «Scuola e Città» del 1962, riportò le cifre impietose dell’esperienza Telescuola: su «32000 alunni dei PAT, solo 800 si presentarono all’esame di licenza d’avviamento, e di questi 500 hanno conseguito il diploma».

Uno spreco di risorse finanziarie che – a parere dello studioso - avrebbe permesso la costruzione di circa 3000 aule nuove o la retribuzione di 4000 nuovi professori. Sarebbe tuttavia ingeneroso non riconoscere l’importanza di Telescuola, ambizioso progetto che tentò di associare le nuove tecnologie ad un modo diverso di fare scuola, per rispondere ad una emergenza politico-pedagogica.

Le criticità della Teledidattica oggi

È dai risultati di quella esperienza di teledidattica che dobbiamo partire oggi, per riflettere sul futuro della nostra scuola e della nostra università, per scegliere se considerare questo strumento tecnologico (con il carico di problematiche pedagogico-didattiche ad esso connesse) come una risorsa pedagogica sulla quale investire, o, limitatamente, come uno strumento per fronteggiare la nuova emergenza.

A tal proposito, vorrei richiamare, almeno due criticità dell’esperienza pionieristica di Telescuola, per orientarci meglio sulle scelte future che presto saremo chiamati ad effettuare. La prima riguarda il problema delle resistenze dei docenti della cosiddetta “cultura ufficiale” verso l’utilizzo di metodologie didattiche diverse da quelle possedute, e da tempo rodate, legate ad una didattica tradizionale, nella quale la relazione educativa si caratterizzava per un rapporto diretto e in presenza tra allievo e maestro. Allora (come oggi), tenuto conto delle esigenze di una società in rapida trasformazione, sempre più tecnologizzata, agli insegnanti venne chiesto di aggiornare, senza opportuni interventi formativi o incentivi, il proprio modo di insegnare.

La seconda criticità riguardò lo scarso coinvolgimento, ma anche la (colpevole) mancata partecipazione, della comunità accademica pedagogica italiana alla costruzione di un progetto scientifico validamente efficace per strutturare tali esperienze, laddove, in altre esperienze nazionali limitrofe degli stessi anni, come quelle francesi, la teledidattica venne sostenuta da forti investimenti sulla ricerca pedagogica,  sotto la guida di Henri Dieuzeide, uno dei massimi esperti del tempo nel campo della pedagogia dei media e delle tecniche audiovisive applicate alla didattica, con risultati certamente diversi.

La Teledidattica del nostro ateneo

Qualche commento merita l’attuale esperienza di teledidattica del nostro ateneo che, come tanti colleghi, mi trovo ad affrontare, per offrire qualche impressione “a caldo” su questa nuova “avventura”, nella quale siamo stati letteralmente catapultati a causa dell’emergenza.

Non ho mai avuto, personalmente, una esperienza di docenza diretta “a distanza”, anche se mi sono occupato degli ambienti elettronici di apprendimento nel corso dei miei studi universitari (qui a Catania!), poi qualche anno dopo, quando fui incaricato di realizzare una piccola pubblicazione, distribuita alle migliaia di insegnanti della scuola partecipanti all’evento SMAU 2003 di Milano, per sensibilizzarli all’utilizzo delle tecnologie a supporto dell’apprendimento, ed infine come esperto di piattaforme FAD nell’ambito di alcuni master universitari del nostro ateneo.

Da pedagogista e dottore di ricerca in Fondamenti e metodi dei processi formativi, non posso esprimere un giudizio neutro, e la mia testimonianza, seppur ampiamente positiva, vuole essere costruttiva nel rilevare alcune criticità.

Una considerazione di base riguarda il fraintendimento della conversione automatica delle attività in presenza in attività a distanza, anche in termini di ore di lezione. La fruibilità e la qualità della didattica, a mio avviso, ne possono risultare danneggiate. Per quanto non sia uno specialista delle metodologie della didattica (anche a distanza), piuttosto che concentrarmi sulle peculiarità dello strumento tecnologico, punterei sulla necessità di accompagnare i docenti verso la ri-progettazione pedagogica delle proprie lezioni, per meglio adattarle ad una metodologia didattica specifica, non equivalente a quella tradizionale, e favorirne un utilizzo ottimale. A mio avviso, questa operazione è di gran lunga la più complessa, perché implica la necessità che il docente riveda le proprie modalità/prassi di insegnamento, apprese e consolidate negli anni, grazie alle quali ha anche ottenuto apprezzabili risultati.

Non dare la giusta attenzione alla progettazione pedagogica e agli opportuni accorgimenti delle metodologie didattiche da adottare in questo frangente, rischia di vanificare – a mio avviso – qualsiasi discorso futuro sull’utilizzo della formazione a distanza, anche in un sistema “misto”. Sono certo che questa esperienza diventerà la vera grande sfida di tutte le università nazionali, e sono altrettanto fiducioso che questa risposta pronta del nostro ateneo darà i suoi frutti per il futuro, a condizione di non ripetere gli errori rilevati nelle esperienze passate. Se opportunamente supportata dal punto di vista pedagogico, la già eccellente qualità della didattica del nostro ateneo potrà non solo limitare eventuali “migrazioni virtuali” verso altri atenei, ma attrarre nuovi studenti, anche dall’estero, se continueremo ad incentivare l’erogazione di lezioni in lingua inglese.

Il digital divide

Quanto alla possibile diffusione/stabilizzazione di queste nuove prassi didattiche, si dovrà tenere conto del fenomeno del digital divide, un problema già rilevato dall’ISTAT nel 2018-2019, con la ricerca “Spazi in casa e disponibilità di computer per bambini e ragazzi”, che snocciola, in cifre, un panorama particolarmente scoraggiante, sia in termini di diffusione di attrezzature informatiche nel territorio italiano (ed in particolare nel Mezzogiorno), che, conseguentemente, delle basse competenze digitali possedute dalle nuove generazioni: il 33,8% delle famiglie non ha computer o tablet in casa, e la quota scende al 14,3% tra le famiglie con almeno un minore.

Nel Mezzogiorno il 41,6% delle famiglie è senza computer in casa (rispetto a una media di circa il 30% nelle altre aree del Paese) e solo il 14,1% ha a disposizione almeno un computer per ciascun componente. Quanto alle basse competenze digitali delle nuove generazioni, nel 2019 la ricerca attesta che, tra gli adolescenti di 14-17 anni che hanno usato internet negli ultimi 3 mesi, due su 3 hanno competenze digitali basse o di base, mentre meno di tre su 10 (pari a circa 700 mila ragazzi) si attestano su livelli alti.

Alle insufficienze rilevate dalla ricerca, si aggiunge poi la scarsa capacità di connettività alla rete di molti studenti, che io stesso ho potuto rilevare nel corso delle lezioni, limitata molto spesso a contratti per dispositivi mobili con una quantità di pacchetti dati non di certo pensati per la fruizione della didattica a distanza, con gravi limiti nella fruizione delle lezioni e nelle possibilità di interazione.

Il futuro tra aggiornamento della classe docente e della didattica

Per concludere, sulla scorta delle criticità rilevate, appare cruciale il richiamo al tema dell’aggiornamento della classe docente, universitaria e scolastica, con interventi formativi mirati, da affidare a quegli specialisti di area pedagogica che, a partire dalle prime esperienze di teledidattica, hanno sviluppato programmi di ricerca specifici e metodologie didattiche innovative.

A questo si aggiunga, per inciso, la necessità di implementare un più funzionale raccordo tra scuola e università, grazie al quale ipotizzare progetti di ricerca-azione sull’utilizzo delle tecnologie didattiche/per la didattica scientificamente fondati. È parere dello scrivente, infine, che qualsiasi progetto di innovazione che ambisca ad approdare ad un reale svecchiamento delle pratiche didattiche, debba necessariamente fare riferimento alla comunità scientifica pedagogica, senza la quale gli investimenti sulle sole infrastrutture tecnologiche, e non sulla formazione e sulla ricerca scientifica, rischiano di vanificare ogni sforzo verso un concreto cambiamento, come dimostra la storia.

Forse, ancora, “Non è (mai) troppo tardi”. Spetta a noi scegliere.  

Stefano Lentini

*Stefano Lentini. PhD in Fondamenti e metodi dei processi formativi, insegna Storia sociale dell’educazione con laboratorio e Storia della scuola e delle istituzioni educative al Dipartimento di Scienze della formazione dell’Università di Catania

 

 

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